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Riflessione

Con le nostre “parole universali” confiniamo la disabilità in un recinto

L’introduzione di Giovanni Merlo al libro «Disabilità. Il peso delle parole», all’origine del convegno del 29 maggio a Milano. «È evidente la distanza tra quanto viene detto e raccontato e quanto poi avviene nella vita reale delle persone»

13 Maggio 2024
Giovanni Merlo

Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Giovanni Merlo al libro Disabilità. Il peso delle parole, appeno uscito con il marchio In Dialogo di Itl libri. Il libro raccoglie le 15 puntate di una rubrica dell’autore sul mensile diocesano Il Segno, è arricchito da due contributi di Matteo Schianchi e Cecilia Marchisio, ed è all’origine del convegno «Il peso delle parole. Comunicare la disabilità» previsto per il 29 maggio, ore 9.30-13.30, presso l’Istituto dei ciechi di Milano. Ingresso libero, crediti formativi per giornalisti e assistenti sociali; qui il programma; qui la scheda di iscrizione.

Tutti i giorni, usiamo tante parole per scambiare tra di noi contenuti e messaggi che riteniamo più o meno importanti. Non passiamo, giustamente, molto tempo ad interrogarci sul loro significato, che tendiamo a dare per scontato. Proprio per questo uso spontaneo e “naturale” delle parole, il modo in cui parliamo e con cui scriviamo possono essere considerati uno specchio di quello che pensiamo, di come rappresentiamo i diversi aspetti della nostra vita.

Quando parliamo di disabilità, le parole sono un problema in sé, principalmente, quando sono portatrici di un contenuto offensivo, minaccioso o denigrante: per questo motivo da tanti anni molte persone e diverse realtà si sono impegnate per promuovere un linguaggio rispettoso delle dignità delle persone con disabilità. Su questo fronte, possiamo essere soddisfatti dei risultati raggiunti, anche se il traguardo può apparire ancora da raggiungere.  Non mancano, purtroppo, nel discorso pubblico, episodi così negativi da sembrare mettere in discussione tutto il lavoro svolto su questo campo.

Ma non sono queste, le parole più interessanti, oggi, per capire cosa pensiamo che sia la disabilità, così come non è più di tanto utile – a questo scopo – definire quali siano le parole migliori o peggiori per parlarne.

La proposta di curare una rubrica su Il Segno dedicata al linguaggio ha offerto la possibilità di verificare il significato di alcuni vocaboli a cui non attribuiamo un particolare valore, pur essendo ricorrenti nel nostro ambito. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, a quante volte gli operatori sociali nei loro discorsi e nei loro documenti sulla disabilità parlano di terapie o servizi, senza dover ogni volta specificare di cosa stiano parlando.

Fermarsi un attimo e approfondire quali siano le rappresentazioni implicite che si nascondono nell’uso di alcune parole è una opportunità per verificare quali siano le diverse idee che si incontrano e si scontrano oggi sulla disabilità.

Perché nei discorsi e nei testi sulla disabilità troviamo spesso la parola genitori? E come mai riteniamo che sia così importante associare la parola disabilità con il suo apparente opposto, cioè abilità? Oppure quali sono le ragioni che ci impediscono di pensare ai diritti delle persone con disabilità in relazione alla loro libertà?

(…) Il problema è che comunicare che le persone con disabilità hanno il diritto di godere degli stessi diritti e delle stesse opportunità delle altre persone, in modo efficace, è molto difficile.

Nessuno mette formalmente in dubbio il diritto all’uguaglianza delle persone con disabilità ma poi, nella pratica, è considerato assolutamente “normale” che non possano scegliere dove e con chi vivere, che studino e lavorino meno rispetto alle altre persone, che dipendano per la loro assistenza principalmente dai loro familiari o che abbiano o meno significative relazioni sociali.

È quindi evidente la distanza tra quanto viene detto e raccontato e quanto poi avviene nella vita reale delle persone con disabilità. Una distanza che riguarda, a volte, quanto scritto nelle norme e la condizione concreta delle persone e delle loro famiglie.

Parliamo costantemente di inclusione e poi continuiamo a prevedere che il destino di migliaia di persone con disabilità sia quello di vivere solo insieme ad altre persone con disabilità e a degli operatori.

Non mancano certo le leggi a tutela dei diritti delle persone con disabilità ma, alla fine, quello che riusciamo ad offrire sono solo sostegni speciali e dedicati e non certo il rispetto dei loro diritti umani.

Abbiamo forse imparato ad usare parole universali, ma pur sempre per confinare il discorso sulla disabilità in un recinto speciale, quasi esclusivo. (…)