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Milano

Comunicare la disabilità, la forma è sostanza

Regole deontologiche, parole e significati, termini da utilizzare e da evitare, un linguaggio che deve evolvere per rispettare i diritti: se ne è discusso in un seminario di formazione per giornalisti e operatori sociali, promosso da Itl Libri e dalla Ledha con la Consulta diocesana e l’Ucsi Lombardia

di Annamaria BRACCINI

30 Maggio 2024

Le parole pesano. Specie quando tendono a dividere, ad alzare muri tra “noi” e “loro”, tra i cosiddetti normali e “gli altri”, le persone con disabilità.

È un seminario di formazione importante (e interessante) quello che nella storica Sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi riunisce relatori di eccellenza e tanti partecipanti, per la grande maggioranza operatori sociali e giornalisti. Tutti insieme per approfondire il tema «Il peso delle parole. Comunicare la disabilità», nel convegno che prende le mosse dal volume Disabilità. Il peso delle parole, edito da In Dialogo (marchio di Itl Libri, editrice dell’Arcidiocesi), che raccoglie le 15 parole commentate sul mensile diocesano Il Segno da Giovanni Merlo, direttore di Ledha (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità). A promuovere l’iniziativa anche la Diocesi – con la Consulta Comunità cristiana e disabilità: O tutti o nessuno, fortemente voluta dall’Arcivescovo e guidata da don Mauro Santoro – e Ucsi Lombardia. Il libro è stato omaggiato a tutti i partecipanti grazie al contributo della Faap (Fondazione ambrosiana attività pastorali).

A confrontarsi, nella prima parte della mattinata, lo stesso Merlo, Matteo Schianchi (ricercatore dell’Università Milano-Bicocca) e Cecilia Marchisio dell’Università di Torino, che hanno collaborato al volume. Significativi anche materiali e documenti messi a disposizione tramite Qr-code.

I relatori della prima sessione

Modera la discussione Maurizio Trezzi, giornalista e docente della Iulm: «Il linguaggio riferito a contesti come la salute o il genere, determina la rappresentazione sociale di un tema, perché influenza tale rappresentazione. Il sentiment cambia, certe parole nell’immaginario collettivo in alcuni tempi non si possono dire perché sono considerate delicate, altre invece sì. Inoltre parole di uso comune possono avere risvolti differenti, a seconda di chi le pronuncia». Chiara, in questo contesto, la responsabilità dei giornalisti: «Cercate di scrivere per i vostri lettori dicendo parole chiare come faceva Franco Bomprezzi», dice ancora Trezzi richiamando la figura del giornalista, scrittore e blogger scomparso 10 anni fa, anticipatore di tante battaglie sulla disabilità, al quale è dedicato il saggio di Merlo.   

Stefano Trasatti

La legislazione e l’uso corrente delle parole

Apre la riflessione Stefano Trasatti, giornalista e direttore editoriale di Itl: «È ora di utilizzare un linguaggio diverso – osserva -. Guardiamo il simbolo del parcheggio per disabili: lo conosciamo tutti, ma ricordate sempre che vi sono disabilità diverse e che, se si parla di persone con disabilità intellettiva o affette da autismo, l’icona della carrozzina non ha molto senso». Il riferimento è ai testi legislativi come la legge 104 e la Convenzione Onu sulla disabilità del 2006, ratificata in Italia nel 2009. Senza dimenticare il testo unico dei doveri del giornalista del 2016 e quello deontologico connesso alla legge sulla privacy – capitoli 5 e 9 – in cui «si invoca l’essenzialità dell’informazione». E c’è anche il recentissimo decreto sulla disabilità, «che obbliga a cambiare linguaggio negli atti formali e future normative, cercando di uniformare ciò che è scritto nella legge 104 con il linguaggio della convenzione Onu».

Da qui l’indicazione: «Non si devono più utilizzare parole come disabile, ma persona con disabilità, non handicap, ma condizione di disabilità; la connotazione di gravità o l’espressione “in situazione di gravità” devono essere sostituite da “necessità di sostegno elevato o molto elevato”».

Delicata anche la parola «malattia, che spesso comporta uno stigma cosi come la “diversità”, che contiene un automatismo concettuale, portando alla considerazione di qualcosa di altro da noi o il come il concetto dell’insegnante di sostegno, che deve riguardare l’integrazione nelle classi, non solo il ragazzo con disabilità».

Giovanni Merlo

Raccontare non l’eccezionalità, ma la vita quotidiana

«Occorre dominare, non lasciandosi dominare dal politicamente corretto – esordisce Merlo -. La sintesi del mio lavoro è far uscire la condizione di disabilità da un recinto comodo perché sempre uguale. Per questo ho analizzato alcune parole normali chiedendo cosa ci dicono quando sono legate alla disabilità. La questione dello stigma e del pregiudizio non è solo da vedere in una dimensione negativa e offensiva – che c’è sempre e continua a lavorare sotto traccia -, ma nell’essere vittime tutti i giorni di discriminazione e nella violazione sistematica dei diritti delle persone con disabilità che, per esempio, sono più povere delle altre, qualsiasi indicatore si prenda. Non possiamo fare a meno dell’immagine che abbiamo della disabilità perché, se non facciamo vedere le barriere umane e ambientali, rimaniamo nei luoghi comuni, altrimenti non si spiega la discrasia tra il linguaggio, che si è evoluto, e la realtà, che è rimasta indietro».  

Trezzi chiede di approfondire la parola “normale”, «perché il concetto di normalità parametrizza tutte le definizioni». Chiara la risposta: «Il tema della normalità è molto potente. Il termine scientifico “normotipico” è una contraddizione: ciò che è tipico non è, per definizione, normale. La questione della normalità è dentro le nostre vite: oggi non è ancora normale che le persone con disabilità vivano come gli altri. Forse l’obiettivo che possiamo darci è che una persona con disabilità possa sperare di uscire dalla dipendenza dei suoi familiari, quando lo desidera, che possa studiare, avere una vita di relazione, insomma che vengano rispettati i suoi diritti umani».

Cecilia Marchisio

Realizzare i diritti

È la volta poi di Cecilia Marchisio, coordinatrice del Centro Studi per i Diritti e la Vita Indipendente voluto dall’Ateneo di Torino: «Le parole dicono cosa pensiamo del mondo. La Convenzione Onu è interessante perché dice che, indipendentemente dalle nostre caratteristiche, tutti godiamo degli stessi diritti. La nostra organizzazione dei Servizi si è costituita prima della Convenzione, dove il paradigma era custodire le persone con disabilità, e quindi è fatta per proteggerle spesso in modo paternalistico, per cui la volontà della persona con disabilità non esiste. Il Covid ha mostrato che i luoghi di protezione deputati all’assistenza di disabili e anziani soli si sono rivelati luoghi di morte. Perciò, il sistema ha cercato di modificare i servizi e il 21 dicembre 2021, nella distrazione generale dei cittadini e dei due rami del Parlamento, è stata approvata all’unanimità la legge 227, il tentativo che l’Italia si è data per far sì che la Convenzione sia legge viva. Il Decreto attuativo, approvato una ventina di giorni fa, prova a tradurre in pratica la realizzazione dei diritti delle persone con disabilità. A tale proposito, anche se a macchia di leopardo, sperimentazione e strumenti amministrativi sono già presenti». Insomma, non siamo all’anno zero, suggerisce Marchisio che sottolinea: «In questo lavoro, ancora una volta, la norma è più avanzata dal sentire comune. Insieme, anche come Università, possiamo superare la differenza tra noi, i normali, e “loro”, i meno umani. Decostruire il concetto che la disabilità dipenda dalla persona, mentre ha a che fare con il contesto, è una necessità, laddove le parole, il lavoro culturale sono importanti perché veicolano dei messaggi».

Matteo Schianchi

Vincere la battaglia contro il “noi” e “loro”

«Il nostro retaggio culturale ci fa pensare che le persone con disabilità siano esseri inferiori –nota Schianchi -. Questo è un fardello che ci portiamo dietro da sempre, anche se magari non lo sappiamo. Dobbiamo combattere, perché è dentro i nostri cervelli e non possiamo mutare per legge. Quando scriviamo di disabilità, in particolare, siamo consapevoli di avere in mano uno strumento di costruzione della realtà? Ci domandiamo quali siano gli effetti di ciò che scriviamo? Evidentemente no. Sui social i discorsi di odio più diffusi riguardano sempre le donne, poi la disabilità e le persone con diverso rientramento sessuale, assai prima di altre categorie».

Ma anche i giornali non scherzano. Basti pensare al titolo di un giornale del nord a proposito della disavventura di alcuni turisti tedeschi: «Mongoli in mongolfiera». E non si tratta solo di pubblicazioni locali, ma anche dei due maggiori quotidiani nazionali. Continua Schianchi: «La disabilità, oggi, nella società è molto più presente, perché è aumentata per tutti l’aspettativa di vita. Ogni anno ci sono circa 50 mila persone che, per incidenti sulla strada e sul lavoro, acquisiscono condizioni di disabilità e questo, paradossalmente, aumenta la paura sotterranea di tutti. Facciamo fatica a fare i conti con tutto questo e, così, si rinsalda e si diffonde l’idea del “noi” e “loro”. Se non combattiamo questa battaglia, che sarà durissima, sappiamo già chi sono le prime vittime».  

Nella seconda sessione Roberto Bernocchi, consulente di comunicazione, ha illustrato la disabilità nella video comunicazione sociale, attraverso la proiezione di alcune campagne di sensibilizzazione sulla disabilità, prodotte in tempi diversi, evidenziando l’oggettivo miglioramento della qualità del linguaggio sul tema, mentre la giornalista e attivista Valentina Tomirotti (www.valentinatomirotti.it), ha raccontato la sua esperienza nell’affrontare la quotidianità e cercando di costruire una società più consapevole sulle diversità.

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