Sono trascorsi 71 anni dal 9 maggio 1950. Allora le ferite della seconda guerra mondiale e delle sue devastazioni erano ancora molto vive, e un cristiano con profonde radici spirituali, recentemente proclamato dalla chiesa Servo di Dio, seppe intuire “come fare l’Europa”.
Fu infatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman, con una dichiarazione passata alla storia, a indicare ai popoli dei sei Stati fondatori, prima che ai loro governi, la necessità di costruzioni concrete per realizzare “solidarietà di fatto” tra ex nemici; una pace intelligente, perché fondata sulla collaborazione e sulla crescita comune, sulla gratuità piuttosto che sulla competizione. L’appello fu raccolto da governanti altrettanto intelligenti dando inizio a una storia nuova.
Sin dai suoi primi anni di vita, il metodo comunitario ha funzionato nell’agricoltura e nei settori delle risorse naturali. L’Unione europea di oggi invece, quella dell’euro e delle discutibili politiche migratorie, si è profondamente allontanata dalla visione dei padri fondatori adottando, specie dopo la caduta del muro di Berlino, un modello economico ultraliberista e finanziario che ha pesantemente stravolto i rapporti tra Stati, imprese e cittadini, fino a rivelare esso stesso sintomi di crisi irreversibile. Alle elezioni europee del 2019, i partiti europeisti, tradizionalmente maggioritari, hanno rischiato di divenire minoranza di fronte a un crescente malcontento testimoniato dalla rimonta sovranista e populista, certo incoraggiata da potenze esterne ma anche esito di una fondata critica alle politiche di Bruxelles, percepite come sempre più rigoriste e inique, in particolare dopo la crisi del 2009, la cui vittima più illustre fu una Grecia commissariata.
Il virus del Covid-19 sembrerebbe invece aver ora risvegliato anche i sentimenti positivi di quell’Europa solidarista e sociale che pareva scomparsa. Next Generation Eu e il Recovery Plan della Commissione Von der Leyen cambiano radicalmente l’approccio dei decenni recenti, immettendo quantità inedite di risorse finanziarie per sostenere la ripresa economica con investimenti pubblici. Attraverso la pandemia sono così tornate al cuore dell’agenda politica il primato del diritto alla salute e la centralità del lavoro, come pure la sostenibilità ambientale e uno sviluppo tecnologico a misura d’uomo, ma anche ricerca e istruzione. Pare presto per dire che gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e la Laudato si’ di papa Francesco abbiano avuto successo e che siamo ormai entrati nell’era dello sviluppo umano integrale. Ma si può a ragione sostenere come un approccio ideologico foriero di effetti sociali divisivi appaia ormai tramontato, e come la rotta si sia invertita a favore di un’iniziativa ispirata a logiche realistiche e orientata al soddisfacimento di bisogni primari diffusi.
L’Italia sarà tra i Paesi potenzialmente più beneficiati da queste nuove politiche, con l’obbligo di sfruttare l’opportunità storica di un cambio di passo sempre rifiutato nei decenni passati. Così, il governo guidato dal tecnico Draghi si pone il principale obiettivo di traghettare il Paese fuori dalla pandemia, innescando nel contempo le riforme strutturali di cui il sistema politico-economico ha vitale bisogno; due aspetti profondamente interconnessi. Ma, insieme ad altri Paesi, anche il nostro vive una profonda disaffezione alla vita pubblica, dovuta alla mancanza di una coscienza politica adeguata alla svolta epocale in corso; lo dimostrano anzitutto la crisi dei partiti e la difficoltà a esprimere leadership autorevoli.
Non sarà facile perciò per le istituzioni pubbliche e le imprese italiane imparare a spendere bene e in pochi anni i 250 miliardi di euro previsti dal Piano. La sfida maggiore è infatti di natura culturale nel necessario passaggio dalla logica individualista delle rendite assistenziali alla capacità di divenire soggetti proattivi, protagonisti dell’attuazione di politiche comuni a forte impronta innovativa. Un cambiamento di mentalità che si preannuncia impegnativo: la futura leadership dell’Europa potrà essere efficace solo se diffusa e condivisa, in grado di comprendere i cambiamenti profondi in atto, nella prospettiva di iniziative generative e sostenibili.
In questo scenario si inserisce l’inizio della Conferenza sul futuro dell’Europa, che prende il via in questa data simbolica del 9 maggio per raccogliere, mediante una piattaforma pubblica, proposte per ripensare il ruolo attuale della Ue. Pare auspicabile che non si punti soltanto all’ennesima opera di ingegneria istituzionale e che la democrazia, più che dal metodo partecipativo, venga sostenuta con la creazione di nuove costruzioni concrete atte a mettere in rete e valorizzare le tante esperienze di solidarietà positive esistenti, moltiplicandone la capacità di generare relazioni umane vitali e, con esse, maggiore speranza nel futuro. E occorre augurarsi anche che, in tal modo, lo spirito autentico dei padri fondatori, con la propria vocazione ricostruttiva e pacificatrice, torni a soffiare tra le strade ormai desolanti delle nostre antiche città.