«L’incarcerazione non fa perdere a un detenuto il beneficio dei diritti garantiti dalla Convenzione». È l’ammonimento ribadito dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che, in una sentenza dell’8 gennaio, ha condannato l’Italia per il problema «strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario». L’accusa è violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, “Divieto della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti”. La sentenza fa riferimento alle denunce di «sofferenza supplementare» esposte da sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza a causa della mancanza di spazio nelle celle. La Corte, giudicando le condizioni dei detenuti «superiori al livello inevitabile di sofferenza» in carcere, invita l’Italia a «mettere in atto, nel giro di un anno, misure che garantiscano un risanamento delle violazioni in merito al sovraffollamento carcerario».
Situazione insostenibile
«Una sentenza che conferma quanto vanno dicendo da anni tutti gli operatori che hanno a che fare con il carcere: la situazione è insostenibile». Così don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, commenta la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Una condizione, quella del sovraffollamento, insostenibile «non solo per motivi di vicinanza umana – precisa don Balducchi -, ma proprio dal punto di vista giuridico: lo Stato sta commettendo un’illegalità, e questo non è certo il modello da presentare a persone con le quali dovrebbe fare percorsi di rieducazione. Lo Stato non può parlare di cambiamento se esso stesso non è in grado di cambiare ciò che non va». L’ispettore generale dei cappellani è scettico rispetto alla possibilità che, a seguito del pronunciamento della Corte, in Italia la situazione muti, «perché il problema era già molto conosciuto» e, anzi, «c’era un decreto che poteva in qualche modo allargare le pene alternative, ma non è stato approvato». Al riguardo, don Balducchi rileva che «nella sentenza si ricorda che già dal 2006 veniva richiesto allo Stato italiano di valutare il carcere solo come soluzione residuale rispetto alle pene alternative».
Superare il pregiudizio
Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 31 ottobre 2012, gli istituti di pena italiani accolgono 66.865 detenuti, a fronte di una capienza complessiva di 46.795 posti. A contribuire al sovraffollamento, secondo don Balducchi, «una quantità enorme di persone in attesa di giudizio»: il 40,1% (26.804) dei detenuti si trovava in custodia cautelare, contro il 23,7% della Francia, il 15,3% della Germania, il 19,3% della Spagna, il 15,3% d’Inghilterra e Galles. «È un’ulteriore ingiustizia – denuncia il sacerdote -: non si possono far aspettare troppo tempo persone con presunzione d’innocenza all’interno del carcere». Dunque, «è il meccanismo di amministrazione della giustizia» che dev’essere riformato, andando nella direzione di «pene alternative al carcere e cambiamenti di mentalità che facciano capire come stare semplicemente in prigione, senza possibilità di lavoro né percorsi di socializzazione, significhi perpetuare l’illegalità». Inoltre, don Balducchi richiama la «giustizia riparativa», ovvero «percorsi di riconciliazione tra coloro che commettono reati e quanti li hanno subiti». Al riguardo, «vi sono in Italia alcune esperienze pilota, ma senza fondamento giuridico». «Il pregiudizio – conclude – si supera se si guardano con realistica intelligenza i dati. E questi mostrano come tra coloro che permangono in carcere la recidiva sia molto più frequente rispetto a quanti fruiscono di pene alternative».
L’impegno del territorio
«Non è possibile che ogni volta sia l’Europa a dirci che stiamo facendo male: deve essere il Parlamento italiano a prendere atto della situazione e a prendere provvedimenti adeguati», rimarca Luisa Prodi, presidente del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario (Seac). «C’è bisogno di un cambiamento – ribadisce -. Bisogna assolutamente immaginare un sistema di pene che non sia sempre e solo carcere, ma soprattutto bisogna che il territorio si faccia carico di queste persone attraverso il reinserimento sociale, pedina importantissima di tutto il sistema carcerario». Secondo Prodi, «l’accompagnamento al lavoro, la possibilità di rientrare in possesso dei diritti civili, della residenza anagrafica, della tessera sanitaria» sono «cose piccole, ma di grande importanza per non cadere nella reiterazione facendo sì che la persona anche se in carcere si senta pienamente cittadino». Da qui l’impegno «della collettività e della comunità cristiana» che, per Prodi, è chiamata a «sentire come propria la condizione di queste persone».