L’episodio dei giovani che hanno tirato un cavo di acciaio ad altezza uomo in viale Toscana a Milano (uno di loro con un passato di cure psichiatriche) ha riacceso la discussione sull’aumento dei casi di disagio mentale e psicologico tra i ragazzi. Un’emergenza che molti associano ai due anni di reclusione forzata e di lontananza dalle aule scolastiche che questa generazione ha subito a causa del Covid.
Non è di questo parere Paola Soncini, psicologa clinica, referente dell’Area salute mentale di Caritas ambrosiana: «Le situazioni critiche come una pandemia, in genere, più che crearle, spesso fanno emergere delle fragilità sottostanti, che c’erano già, ma magari erano meno raccontate – sostiene -. Lo dimostra il fatto che, circa una decina di anni fa, quindi in tempi non sospetti, Regione Lombardia promosse una seria riflessione sulla neuropsichiatria infantile, sfociata nell’apertura di alcune comunità terapeutiche per minori nella nostra Regione, che prima ne era carente». Una di queste, «Pani e peschi», aperta nell’ottobre 2016, è gestita dalla cooperativa «Filo di Arianna» del Consorzio «Farsi Prossimo», il sistema che raccoglie diverse cooperative promosse da Caritas ambrosiana. «Questo vuol dire – prosegue Soncini – che il problema non nasce con il Covid, ma era già chiaro prima. Tanto è vero che, a seguito di questa riflessione, si è lavorato anche per potenziare l’offerta ospedaliera con l’apertura di nuovi reparti di neuropsichiatria infantile a fianco di quelli già presenti, per esempio, a Monza e Brescia».
Secondo Paola Soncini, infatti, «gli adolescenti, sono in una fase evolutiva, in continuo divenire. Un ragazzo può vivere un momento di malessere che poi però può rientrare. La malattia mentale vera e propria ha un insieme di concause: ci deve essere una fragilità biologica di base, una difficoltà nello sviluppo psicologico e un contesto sociale non supportivo. Non a caso si parla infatti di modello “bio-psico-sociale”. Negli anni del Covid il contesto sociale è stato decisamente poco favorevole, ma gli adolescenti con minori vulnerabilità, pur soffrendone, si sono poi ripresi».
Una società iper competitiva
Certo è che negli ultimi anni i casi di cronaca e l’esperienza personale ci dicono che la sofferenza dei giovani è in aumento. Se non è stato (solo) il Covid, cosa è cambiato? «È cambiato il contesto nel quale i ragazzi crescono – risponde Soncini -, ma anche la forza che ha la comunità educante, a partire dalle famiglie. Non tutti gli adulti sono uguali, certo, e i contesti sociali sono molto diversi, ma fatti i dovuti distinguo, possiamo dire che viviamo in una società iper-competitiva, in cui vengono negati il fallimento, il dolore e la morte. In questo contesto, se non sei primo, non sei secondo, ma ultimo. I ragazzi crescono pensando di essere i migliori e poi scoprono, tutto in un colpo, di non esserlo. A quel punto è come se il mondo crollasse loro addosso. Un inganno in cui cadono anche gli adulti, che rischiano di rincorrere gli stessi miti di bellezza e popolarità che rincorrono gli adolescenti, quando invece dovrebbero fornire loro un orizzonte più ampio e gli strumenti necessari per crescere».
«Bisognerebbe cominciare fin da quando i figli sono piccoli – sottolinea Soncini -, educandoli a tollerare la frustrazione che comporta il non avere tutto subito, altrimenti da adolescenti non sapranno reggere la fatica del vivere. Sono cose, però, che non si possono insegnare a parole, si trasmettono solo se il genitore le sa vivere lui per primo. Ma se da adulti non siamo in grado di reggere la frustrazione che comporta il non avere il consenso dei figli, per esempio quando diciamo loro qualche “no”, non riusciremo a insegnare loro che nella vita ci sono tappe in cui si va avanti per la propria forza interiore e non perché gli altri ci applaudono, che i frutti della fatica ci sono, ma che non sempre sono immediati».
È il lavoro dell’educare, bellissimo, ma niente affatto facile: «Gli adulti hanno sempre fatto fatica con gli adolescenti, perché ci provocano, ci richiamano sulle nostre incoerenze, sanno come mettere il dito nella piaga. Più che mai in quest’epoca, in cui gli adulti mancano di stabilità: sei sempre attento al contesto esterno e rincorri gli applausi degli altri, non sai chi sei, non sai più quello che per te vale davvero, quali sono i tuoi ideali e i tuoi valori».
Senza valori, tutto è noia
Come si spiega un gesto come quello del cavo di acciaio? Un fatto che ha molte analogie con i sassi lanciati dai cavalcavia, una tragica “moda” diffusa tra i ragazzi che qualche anno fa fece parecchie vittime, e che sembra parlarci più di noia che di malattia mentale… «In realtà la noia – spiega Soncini – è molto legata ai meccanismi che abbiamo descritto. Nel momento in cui non si è più in grado di faticare per un obiettivo, di gestire la frustrazione e la rabbia perché non si ottiene tutto e subito, allora l’alternativa è la noia. Per vincerla, i ragazzi devono fare qualcosa di molto forte, che generi adrenalina e li faccia sentire vivi».
Noia, ma non solo, aggiunge Soncini: «Il tutto avviene in una società individualistica, in cui c’è una dose di aggressività sempre strisciante. Non si pensa minimamente a un “altro” che potrebbe subire le conseguenze di quello che facciamo, per esempio la macchina che incappa nel filo o che passa sotto il ponte da cui stiamo lanciando i sassi. Ci siamo solo noi e quello che abbiamo in mente di fare». E a complicare ulteriormente c’è l’uso di droghe o alcol, come sembra sia avvenuto anche per i ragazzi coinvolti nel caso di viale Toscana: «L’uso di sostanze è sempre segno di un disagio, ma se una volta si assumevano soprattutto per trasgredire, oggi hanno sempre di più la valenza di lenire un dolore mentale. Sotto l’effetto delle droghe i ragazzi non sono lucidi e fanno cose che altrimenti non farebbero».
Come rimediare? «I ragazzi oggi a volte sembrano profondamente passivi, quasi catatonici. In realtà l’adolescenza è l’età delle esperienze nuove e delle forti passioni. Il segreto è stare loro accanto e promuovere queste passioni: dall’imparare a suonare uno strumento allo sport. Il compito di noi adulti è quello di aiutare gli adolescenti a capire chi sono e cosa desiderano, per quali valori spendere la propria vita e le proprie capacità. Ma questo è possibile se l’adulto ha una sua personalità strutturata, come si diceva prima. Se ci fosse una comunità educante solida, che si mette in discussione e sceglie lei per prima di crescere e di affrontare le difficoltà, avrebbe gli strumenti esperienziali per accompagnare gli adolescenti nelle loro passioni».
Il problema è che, al contrario, i genitori sono spesso soli e di questa “comunità educante” si sono perse le tracce: «Gli operatori che accompagnano le famiglie lamentano da una parte, l’assenza in molti adulti delle più elementari nozioni educative, dall’altra, la mancanza di una rete di supporto. Se manca la “comunità educante” i genitori che non sanno come affrontare le situazioni agiranno spesso cercando di ridurre il proprio malessere, più che pensare al bene dei ragazzi», conclude Soncini.