Ricorda i giorni condivisi in procura, a Marsala; un lavoro divenuto sempre più condivisione e una conoscenza che lo ha fatto diventare parte della famiglia Borsellino. Diego Cavaliero, magistrato – autore della prefazione del libro Paolo Borsellino 1992… La verità negata (San Paolo), scritto da Umberto Lucentini e Lucia, Fiammetta e Manfredi Borsellino – era al suo primo incarico a Marsala, come sostituto di Paolo, allora procuratore della Repubblica, tra il 1986 e il 1992. Da lì il primo contatto e un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita.
Tra ricordi, aneddoti e sorrisi, per i bei momenti vissuti assieme, Diego ripercorre il ricordo del collega ucciso trent’anni fa in via d’Amelio, a Palermo. «Una volta eravamo su un vespino vicino all’aeroporto di Punta Raisi – racconta -. A un certo punto Paolo si sente chiamato da un venditore di pane, che lo vendeva nella sua macchina parcheggiata vicino. Lui era uno che non accettava niente da nessuno. Questo signore offre a Paolo un pezzo di pane. Lui lo ringrazia e ce ne andiamo. A quel punto io gli ho chiesto perché lo aveva accettato. E lui mi raccontò che aveva fatto condannare all’ergastolo il fratello di questo signore. “Se gli avessi rifiutato il pane, che in quel momento era la cosa più preziosa che aveva, gli avrei arrecato un’offesa gravissima”, mi disse. Questo era Paolo».
Come conobbe Paolo Borsellino?
Il mio ricordo mi rimanda all’inizio di un rapporto anomalo, nel senso che io mi presentai nello studio di Paolo. Lui era ancora giudice istruttore, a Palermo. Ma era stato appena nominato procuratore della Repubblica a Marsala. Entrai nel bunker, dopo aver superato innumerevoli controlli. Gli chiesi: «Procuratore, permesso. Sono Diego Cavaliero». E lui mi rispose: «Paolo sono!». A quel punto andammo a prendere un caffè. Per me Marsala era la prima sede come sostituto. Dopo un paio d’ore, mi ritrovai a casa sua. Perché mi invitò a pranzo e lì fui accolto da una folla festante costituita dalla signora Agnese, che cercava di moderare le intemperanze dei figli, che allora erano veramente ragazzini. Quando Paolo tornava a casa era una festa. E io sono stato accolto come uno di loro. Posso dire di essere stato il quarto figlio di Paolo Borsellino.
Dal punto di vista personale, qual è il suo ricordo?
Io ho perso un amico, un fratello e un padre. Quando sono arrivato in Sicilia, mi ha preso per mano e mi ha portato a imparare un lavoro ma soprattutto ad affezionarmi a un lavoro. Quando lui lavorava – e lui più di me -, eravamo in due nella procura di Marsala, trascorrevamo 12 ore insieme. A pranzo andavo da lui, la sera a volte lo andavo a prendere di nascosto dalla scorta e andavamo a Mazara del Vallo a mangiare qualcosa da qualche parte. Lui non andava solo il sabato e la domenica a casa. Ma spesso faceva delle improvvisate. Allora lo andavo a prendere e il pomeriggio andavamo a Palermo.
E dal punto di vista professionale?
Era un mezzo blindato. Io arrivai a Marsala e lui mi diede tre faldoni di carte relative a un’inchiesta su una finanziaria che prosperava tanto. Mi disse di leggerle e fargli sapere cosa ne pensassi. Io andai in cartoleria. Spesi tanti soldi di materiale. La mattina dopo andai in ufficio e Paolo mi diede un foglio di carta in bianco. Mi chiese di firmare. Io gli dissi: «Ma cosa firmo?». E lui mi rispose: «Non ti fidi del tuo procuratore?». Nella notte aveva redatto un provvedimento di custodia cautelare di oltre duecento pagine per gran parte dei componenti di questa struttura. Io mi permisi di dirgli: «Guarda, Paolo, qui sopra c’è scritto mandato di cattura». Parliamo del vecchio codice di procedura penale. Lui si arrabbiò. Gli dissi che da procuratore della Repubblica lui faceva ordini di cattura, non mandati di cattura. Dopo mezz’ora, cancellò mandato e scrisse ordine. E mi disse: «Mi hai convinto». Lui era così. Avevamo sempre le nostre stanze aperte l’uno per l’altro. Chiedeva consigli. Si arrabbiava quando veniva contraddetto, perché non accettava di essere messo in discussione. Se ne andava quasi sbattendo la porta. Però, dopo mezz’ora massimo, tornava e diceva di andarci a prendere il caffè. Questo era il suo modo di fare pace. Non c’è mai stata un’occasione di litigio.
Lei parla di Paolo Borsellino come di una “coperta di Linus” per i colleghi. In che senso?
Una volta dispose una perquisizione domiciliare nei confronti di un soggetto che non sapevo chi fosse. Il giorno dopo uscì un articolo: «Perquisita l’abitazione di un deputato siciliano». Io lessi quel giornale senza accorgermi che era un provvedimento mio. Paolo la prima cosa che fece fu quella di convocare una conferenza stampa e disse che «se avete qualcosa da dire la dovete dire a me, perché il collega ha agito su mia delega». Paolo proteggeva i colleghi, faceva da parafulmine. A patto che non ci fosse un errore doloso da parte di chi operava.
Quale sicurezza dava a chi lavorava con lui?
Totale. Nel senso che ricordo che una volta tentarono di rubarmi la macchina sotto casa. Trovai un vetro rotto ma non mancava nulla. Quando raccontai la cosa a Paolo, gli dissi che avevo trovato due cavi elettrici che scendevano dallo sterzo. In quel momento, mi disse: «Adesso te ne devi andare, perché la prossima volta i fili elettrici non li vedi». Voleva dire che sarei saltato per aria. Lui era molto attento a tutti i segnali possibili e immaginabili che venivano dall’esterno. Paolo a Marsala era un giudice scomodo. I suoi rapporti con i colleghi erano cordiali ma la cosa finiva lì. Gli altri colleghi evitavano un suo coinvolgimento anche con una pizza, perché nessuno voleva avere problemi. L’arrivo di Paolo a Marsala ebbe un effetto dirompente. E lui viveva in un appartamento a spese sue, all’interno del commissariato. Aveva un’Alfetta blindata. Lui e Giovanni Falcone erano gli unici giudici in Italia che potevano guidare la blindata senza l’autista perché non c’era la possibilità di coprire il turno di otto ore con due autisti. E Paolo ci pagava la benzina di tasca sua.
A trent’anni di distanza dal giorno della strage di via d’Amelio, quale considerazione si può fare?
Ho il timore che Paolo, come Giovanni, e tanti altri – Cassarà, Montana, Chinnici, Basile – siano morti invano. Hanno lasciato degli orfani. I figli di Paolo sono diventati uomini e donne. È stato tolto loro il padre. Però così come lo Stato, quando c’è stata la notizia di Radio Carcere secondo cui era stato organizzato un attentato per lui e per Giovanni Falcone, quando si trattava di scrivere l’ordinanza del maxiprocesso, li ha mandati all’Asinara e ha fatto pagare loro 750 mila lire di vino, con fattura che ho visto, perché non ha portato Paolo chissà dove, dopo la morte di Falcone? Perché non è stato protetto così? Non so se sarebbe vivo, però credo che lo Stato sia stato un po’ “distratto”, per usare un eufemismo.
Qual è l’eredità morale lasciata da Paolo Borsellino?
La sua eredità rivoluzionaria nasce dal fatto di essere stato un grande padre, un grande magistrato, un fervente credente. Era una persona che aveva la consapevolezza di quello cui andava incontro. Tant’è vero che lui sapeva. Io gli chiedevo: «Ma tu hai paura?». E lui diceva: «Sì, ma ci vuole anche il coraggio e l’importante è che la paura non diventi panico». Non so quanti magistrati oggi farebbero quello che ha fatto lui. Credo veramente pochi.