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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Economia

Caro benzina, il fisco fa il pieno

Penalizzando famiglie e lavoratori

di Nicola SALVAGNIN

20 Maggio 2011

Nei giorni scorsi, sui quotidiani nazionali si potevano leggere questi titoli: “Si sgonfia la bolla speculativa sul petrolio” e “La benzina tocca il record storico di 1,6 euro al litro”. Un’apparente, anzi una reale contraddizione. Il prezzo del petrolio – che ha da tempo superato i 100 dollari al barile “grazie” alla speculazione finanziaria e non certo a carenza di materia prima o a eccesso di domanda – è in precipitosa ritirata, mentre in Italia la benzina ha superato le 3 mila lire al litro. Per chi ricorda il valore della lira, la cifra fa veramente impressione.
A prendere paura non sono solo le famiglie, che nel giro di un anno hanno visto il costo dei carburanti salire anche del 40%; ma soprattutto l’intera economia italiana, che per l’88% gira su gomma. Per gli autotrasportatori, in particolare, la situazione è drammatica e sono in molti, in queste settimane, a lavorare in perdita.
C’è qualche furbetto che sta facendo colossali guadagni: questo il pensiero di milioni di italiani. È vero, ma il colpevole è veramente il più insospettato, e lo riveleremo alla fine. Da scagionare subito i benzinai: in Italia sono finti dipendenti mascherati da liberi imprenditori. La stragrande parte delle stazioni di servizio sono di proprietà delle grandi compagnie estrattive, che vendono il loro prodotto e fissano i prezzi. Il margine del benzinaio si aggira sul 2,5-4% dell’incasso.
Allora sono le compagnie a fare cartello, e a imprigionare la libera concorrenza? L’Antitrust ha sempre i fari puntati sulla questione, ma non ha mai rilevato situazioni di cartello dei prezzi. Che sono alti anche negli altri Paesi europei, e pure assai schiacciati tra quelli della pompa più conveniente e quella più cara. In Belgio come in Italia, la differenza raramente supera il 10%: una percentuale infima se rapportata ad altri beni di consumo.
Ci sarebbe un passo da fare, quello di razionalizzare la rete di vendita. In Francia ci sono 2,68 distributori ogni 100 kmq, in Italia 7,27. Cioè tanti ma più piccoli, che erogano quindi circa la metà dei 3,6 milioni di litri venduti in media ogni anno da una stazione di servizio transalpina. Qui s’inserisce la proposta di legge di iniziativa popolare, promossa da Fegica Cisl e Faib Confesercenti (scade il 31 maggio), di liberalizzare maggiormente la rete di distribuzione in Italia, sganciandola dalle compagnie produttrici. Il benzinaio diventerebbe realmente un imprenditore che adotta le politiche di acquisto e di vendita che ritiene più opportune. In più si svilupperebbero quelle mega-stazioni di servizio agganciate agli ipermercati, che infatti riescono a offrire i prezzi più bassi.
Ma allora: se il margine di petrolieri e gestori non supera il 10%; se la materia prima incide per un altro 40 circa; chi si mangia la restante ed abbondante fetta di torta? Siamo al colpevole del caro-gasolio in Italia (come nel resto del mondo occidentale, in verità): il Fisco. Tra accise e Iva sulle stesse, più della metà dell’incasso se lo porta a casa lo Stato. E più sale il prezzo della benzina, più il Fisco incassa, silenzioso e gaudente.
Si potrebbe fare come si è fatto altre volte in passato, e come è stato recentemente deciso pure in Gran Bretagna: sterilizzare gli aumenti rinunciando ad una (piccola) parte delle accise. Purtroppo poi si controbilancia il giusto contenimento fiscale con qualche nuova leggina che scarica sul costo di un litro di benzina una guerra in Libia o il finanziamento pubblico alla cultura. Si pensi solo che, dentro il prezzo del litro di benzina, c’è ancora il finanziamento dell’avventura coloniale in Abissinia, anno 1935.