In geometria esiste un’equivalenza tra il volume di un solido (lo spazio che occupa) e la sua capacità (quanto può essere riempito). Per il carcere, in Italia, questa semplice legge non vale e la capienza pare non avere limite. Come è possibile d’altronde, se non sfidando le leggi della fisica, stipare 371 persone in un istituto che ha 185 posti (Brescia Canton Mombello), 690 persone in un carcere che di posti ne ha soltanto 364 (Foggia) o, per restare nel territorio della Diocesi ambrosiana, ficcare 422 persone dove ce ne starebbero solo 240 (Busto Arsizio) e ancora altre 710 nello spazio previsto per 411 (Monza)?
La condanna europea
Dieci anni fa la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia, con una sentenza pilota nota come «sentenza Torreggiani», per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, quella che proibisce la tortura e le pene e i trattamenti «inumani e degradanti». In quel momento le persone adulte detenute negli istituti penitenziari italiani erano più di 65 mila. Le conseguenze di quella condanna furono alcune timide misure deflattive, che in un paio d’anni portarono la popolazione detenuta a 52 mila unità, e una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che introdusse, nei reparti di media e bassa sicurezza la «sorveglianza dinamica», con una sorta di regime a celle aperte che ampliava, all’interno delle sezioni detentive, spazi e libertà di movimento per chi vi era detenuto.
Poi il numero delle persone incarcerate tornò progressivamente a crescere fino a superare di nuovo, nel 2019, quota 60 mila. Questa volta non intervenne una Corte di giustizia, ma fu il Covid a costringere l’amministrazione a una serie di benefici che portarono alla scarcerazione, almeno temporanea, di qualche migliaio di persone. Ora – a novembre 2023 – le presenze in carcere sono nuovamente più di 60 mila e, nel frattempo, un’altra circolare dell’Amministrazione penitenziaria ha disposto, andando in direzione opposta a quella del 2013, un regime detentivo di media sicurezza che, di fatto, limita fortemente la possibilità di tenere le celle aperte per buona parte del giorno.
Il dramma dei suicidi
Intanto, nel 2023, 68 persone detenute hanno scelto di togliersi la vita dietro le sbarre. Almeno 68, visto che diverse morti sono registrate senza che le cause siano del tutto chiarite. Ai suicidi «riusciti» andrebbero aggiunti i tentativi di suicidio non portati a termine e gli episodi, frequentissimi, di autolesionismo, anche grave. In qualunque altro contesto una percentuale di suicidi così alta non sarebbe considerata tollerabile e da più parti si invocherebbe a gran voce un intervento urgente per porvi rimedio. Invece per chi si uccide in carcere si levano poche fievoli voci. Molte storie, molti nomi, li conosciamo solo attraverso il lavoro, testardo ed encomiabile, di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it). Tra le altre anche quelle dei quattro uomini che si sono uccisi nel 2023 a San Vittore e dei tre che hanno deciso di fare lo stesso nel carcere di Opera. I due più giovani avevano solo 21 anni.
Nel 2006, in una situazione carceraria divenuta ingestibile si arrivò a un indulto che permise a diverse migliaia di persone di uscire dal carcere un po’ in anticipo rispetto al fine pena previsto. Anche in quel caso, come in occasione delle scarcerazioni legate agli interventi seguiti alla «sentenza Torreggiani» e, successivamente, alla pandemia di Covid-19, non si registrò nessun incremento significativo nel numero dei reati commessi in Italia. Eppure oggi nessuno ha la forza di voce per reclamare un atto di clemenza – meglio sarebbe dire di ripristino della legalità detentiva – e le richieste in questo senso reiterate da papa Francesco sono state accolte da un silenzio assordante. D’altronde è da diversi anni che, nel nostro Paese, il Ministero non è più anche di Grazia, ma ormai solo di Giustizia.
Condannati alla recidiva
Da qualunque parte la si voglia guardare è evidente che il carcere è un’istituzione fallimentare, almeno se si prende sul serio lo scopo rieducativo che gli è attribuito, assieme alle altre pene previste dal nostro ordinamento, dalla Costituzione. Gli studi disponibili mostrano un livello di recidiva criminale incomparabilmente più alto per chi sconta la propria condanna tutta in carcere rispetto a chi usufruisce di una misura alternativa, per chi è recluso in un regime di carcere chiuso rispetto a chi gode di un regime più aperto.
La popolazione detenuta è fatta in gran parte non di persone che abbiano commesso gravi reati, ma di persone che vivevano, già prima della carcerazione, situazioni di povertà e vulnerabilità sociale, educativa, economica e abitativa. Non occorre nemmeno andare a scomodare la statistica, basta chiedere a chiunque «abbia visto», a chiunque «ci sia stato» (volontario, operatore, direttore di carcere o agente di polizia penitenziaria che sia) per scoprire quale livello di sofferenza umana, sociale e sanitaria sia attualmente rinchiusa in cella.
Con tutto ciò, la già citata circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 18 luglio 2022 (n. 3693/6143) che interviene sul «Circuito media sicurezza. Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario», ha avuto, sta avendo, come effetto in molti istituti (sono di «media sicurezza» la maggior parte dei reparti detentivi) una progressiva «chiusura» nelle celle per molte persone detenute, per molte ore al giorno. In celle sempre più sovraffollate. In carceri sempre più caratterizzati dall’essere luogo di sofferenza, anche psichiatrica.
I dati del Garante
Le conseguenze di questa scelta, che si vanno a sommare alla progressiva riduzione delle telefonate e delle videochiamate ai familiari garantite durante la pandemia, sono già state messe in luce dallo studio promosso dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale sulla sperimentazione della direttiva, condotta dall’Amministrazione penitenziaria da luglio a dicembre 2022 in quattro regioni, compresa la Lombardia. I dati resi pubblici dal Garante indicavano, anche per la Diocesi milanese, una drastica diminuzione delle sezioni a «custodia aperta» e una preoccupante crescita di quelle a «custodia ordinaria» (cioè chiusa), e la situazione è andata aggravandosi con la successiva applicazione generalizzata della circolare, soprattutto in quegli istituti dove la presenza di operatori «esterni» e di volontari non riesce a garantire a sufficienza quelle attività «trattamentali» a cui è, inopportunamente, legata la possibilità di restare fuori dalla cella.
Una “vendetta” sociale?
E ancora, dopo l’affossamento della proposta di legge nota come «legge Siani», che intendeva arginare la vergognosa presenza di bambini detenuti in carcere insieme alle loro mamme, l’anno si è chiuso con l’ennesimo, davvero non necessario, pacchetto sicurezza. Tra le varie previsioni normative approvate dal Consiglio dei ministri ce n’è anche una che rende discrezionale l’applicazione di una misura detentiva alle mamme che hanno bambini piccoli, a partire da un anno d’età. Sarà così più facile incontrare in carcere bambini che impareranno a conoscere il mondo entro i limiti imposti dalle sbarre di una cella. Ecco, anche questo bisognerebbe andare a vedere, in ossequio al monito di Piero Calamandrei, prima di votare questa o altre norme carcerocentriche: il muro di sbarre, fisiche e figurate, che limita l’orizzonte di un bambino in galera.
Ecco come, varcata la soglia del 2024, le carceri italiane continuano a rappresentare, come denunciava Filippo Turati più di un secolo fa, «l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta», in barba all’auspicio del cardinale Carlo Maria Martini per una società capace di ricorrere alla privazione della libertà in carcere solo come estrema ratio, solo temporaneamente e solo per quelle forme di violenza altrimenti inarrestabili.