Da Il Segno di maggio
Biodiversità: tutti ne abbiamo sentito parlare. Ma sappiamo cosa accade davvero e quali rischi comporta la perdita di migliaia di specie animali e vegetali ogni anno? Ne ha parlato anche papa Francesco dedicando un intero capitolo della Laudato si’ proprio alla biodiversità. È un rischio che minaccia la sopravvivenza degli uomini e che danneggia proprio quello stesso sviluppo economico in nome del quale si distrugge la biodiversità. Alla fine, custodire le specie animali e vegetali non è solo etico, ma ci conviene.
Ne parla Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano, indicato nel 2018 dalla rivista Nature come uno degli undici scienziati emergenti nel mondo per i suoi modelli di previsione dei comportamenti delle foreste in risposta al climate change.
Che cos’è esattamente la biodiversità?
La biodiversità è la ricchezza non solo delle specie di esseri viventi che esistono, come spesso pensiamo, ma soprattutto delle relazioni tra di loro. Gli ecosistemi sono reti di relazioni, funzionano bene quando ci sono tante specie che interagiscono l’una con l’altra, attraverso la competizione o la collaborazione. Più sono numerose e forti queste interazioni, più un ecosistema – una foresta, una prateria o anche un campo coltivato – è stabile, addirittura produttivo. Nel momento in cui si minaccia l’esistenza di queste specie o di queste relazioni si minaccia non solo la salute dell’ecosistema ma, di riflesso, anche la salute nostra di uomini, che da quell’ecosistema dipendiamo. È proprio quanto sostiene anche il Papa nella Laudato si’: non tutelare la biodiversità si rivela dannoso per l’uomo stesso, anche economicamente… Anche limitandoci a una prospettiva esclusivamente antropocentrica, i danni della perdita di biodiversità sono sotto gli occhi di tutti. Per esempio, il declino degli insetti impollinatori, a causa di pesticidi e cambiamento climatico, mette a rischio la riproduzione di molte delle piante di cui ci alimentiamo e rischia di esporci a future carestie. Oppure, la deforestazione potrebbe causare una carenza di farmaci, visto che un quarto dei principi attivi delle medicine che assumiamo quotidianamente deriva da piante che crescono nelle foreste tropicali, che purtroppo sono uno degli ecosistemi che sta scomparendo più in fretta a causa della sua distruzione diretta, per fare spazio a pascoli, campi di soia, miniere.
Lei studia la resilienza delle foreste. È un tema molto affascinante, ce ne parla?
Le foreste esistono da 400 milioni di anni, un tempo 100 volte superiore a quello degli ominidi sulla Terra. Hanno saputo superare glaciazioni planetarie, impatti di comete, meteoriti, eruzioni vulcaniche su scala inimmaginabile. Se sono ancora tra noi vuol dire che l’evoluzione ha selezionato straordinari meccanismi di resistenza. Le piante non possono muoversi, non deve essere stato facile sopravvivere dopo questi eventi drammatici, hanno dovuto elaborare strategie fantasiose: dalla capacità di ricrescere interamente da un ceppo danneggiato, ai semi trasportati dalla pelliccia degli animali, addirittura dalle ruote delle nostre macchine. Naturalmente questo meccanismo prodigioso ha un limite. Non è un grande problema se la foresta subisce un incendio o una tempesta di vento. L’importante è che la serie di eventi traumatici non diventi improvvisamente più veloce e più intensa. Purtroppo, questo è proprio quello che abbiamo iniziato a osservare come effetto della crisi climatica.
Il 22 maggio è la Giornata della biodiversità. Il focus di quest’anno è sul cibo: che relazione c’è tra le due cose?
Abbiamo già parlato degli impollinatori, per dire come l’alimentazione dipenda dall’equilibrio di un ecosistema. Ma anche tra gli alimenti stessi esiste una biodiversità naturale, che l’uomo in passato ha contribuito a rafforzare, selezionando moltissime varietà di frutta e di verdura. Quindi noi uomini siamo capaci anche di essere alleati della biodiversità, non siamo solamente una minaccia. Oggi questa varietà rischia però di perdersi perché l’agricoltura intensiva standardizza le produzioni e, alla lunga, impoverisce il suolo, stressa le risorse idriche e limita il numero di insetti che possono frequentare quella zona, a causa dell’uso intenso di fitofarmaci. Può essere una soluzione nel breve periodo, ma a lungo termine ci stiamo accorgendo che diventa pericolosa proprio per la produttività stessa. Tutelare la biodiversità è un investimento che alla lunga si rivela vincente.
La legge europea sul ripristino degli ecosistemi è uno strumento utile per la tutela della biodiversità?
Finora le funzioni benefiche della biodiversità non sono state mai riconosciute, oppure venivano date per scontate, per cui nessuno pagava quando venivano perse. Da una parte questo si può correggere con divieti o leggi, come nel caso della legge europea sul ripristino degli ecosistemi già danneggiati che, ricordiamolo, deve ancora passare l’approvazione finale al Consiglio europeo e ha avuto una battuta di arresto: diversi Paesi, tra cui l’Italia, si sono opposti a questa legge, che invece è rivoluzionaria. D’altra parte, è possibile assegnare un valore economico alla biodiversità, cioè affermare che la protezione del suolo e la resistenza ai cambiamenti climatici hanno per noi un valore, che è giusto riconoscere a chi si spende per mantenere gli ecosistemi funzionanti. È un costo che, però, non deve essere sostenuto solo dai piccoli contadini o dai consumatori finali. Ci deve essere una collaborazione, con incentivi statali, da parte delle grandi aziende, nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa.