«Il Medio Oriente è in sofferenza, eppure sono convinto che questa crisi non gli sarà fatale, ma quello che dispiace è che non si possa fissare, per così dire, un “prezzo” per la pace. Per quanto elevato sia, sarà sempre meglio che continuare a vivere, di fatto, in guerra». Non ha dubbi, monsignor Edmond Farhat, a Milano per impegni pastorali e ospite del cardinale Tettamanzi, «che mi onora della sua amicizia da oltre 30 anni», spiega.
Nato in Libano, impegnato presso molte nunziature, a Vienna, in Tunisia e in Turchia, arcivescovo di Biblos e nunzio apostolico, monsignor Farhat è un conoscitore privilegiato della storia recente e della realtà di quelle zone e in questa veste è stato anche delegato ascoltato e di prestigio al recente Sinodo del Medio Oriente. Assise che tiene a citare quando sottolinea quello che, secondo lui, potrebbe essere il “prezzo” della pace: «Bisogna fare pressione sulla politica internazionale – riflette – perché convinca Israele e Autorità palestinese che un domani di tranquillità è a favore sia dell’uno sia dell’altra. C’è posto per tutti, ci vuole solo un poco di fiducia».
Ma è proprio qui che il sorriso gentile lascia il volto del vescovo Farhat, perché la parola fiducia presuppone «smettere di aver paura e, dunque, di farsi la guerra e di uccidere. Ma chi vuole davvero ascoltare parole così?». E se, al Sinodo, i Vescovi della regione hanno chiesto l’intervento dell’Onu, in un tale orizzonte di pacificazione della Palestina, la domanda è ovvia: perché la mediazione dell’Onu e non della Chiesa di Roma? «La Chiesa ha una missione religiosa, porta l’Annuncio e la Parola di Dio, indica e invita, dice la verità oggettiva dei fatti, non sta né con una né con l’altra parte. È per questo che a molti politicanti non piace. Vorrei ricordare Paolo VI che nell’ottobre 1965, di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, scandì: “Mai più la guerra”. E abbiamo visto, in questi decenni, come il suo appello sia caduto nel vuoto. Quante morti e devastazioni da allora… Lei – continua Farhat – che vive nel cuore dell’Europa, a Milano, consideri come la pace ha creato, nelle vostre terre, prosperità, cultura, progresso, dignità riconosciuta alle persone, al loro lavoro e alla loro vita. Le direttive della Santa Sede esistono, ma, talvolta, ho l’impressione che sia il popolo di Dio che non le segue».
Tra i frutti che ha prodotto la guerra, c’è anche il martirio, come quello di monsignor Padovese, che lui stesso ordinò vescovo e ha conosciuto bene: «Sono due gli uomini di preghiera e di fede che hanno colpito in modo particolare la mia vita: monsignor Padovese in Turchia e il domenicano padre Pierre Claverie, assassinato in Algeria al ritorno da una celebrazione in memoria dei sette monaci trappisti trucidati a Tibhirine, vicenda cui si ispira il film Uomini di Dio. Padovese aveva studiato i Padri della Chiesa e sapeva che le persecuzioni fanno parte della testimonianza, Claverie era un conoscitore dell’islam. Entrambi avevano uno straordinario rispetto per la gente, a qualunque credo religioso appartenesse. Mi è stata chiara fin dal primo momento la ragione per cui sono stati uccisi: “davano fastidio” ai loro avversari che non potevano trovare ragione per attaccarli». E, forse, anche se monsignor Farhat non lo dice apertamente, è proprio per la “politica” che non facevano, che furono bersagli fin troppo facili da colpire. «Il Medio Oriente è in sofferenza, eppure sono convinto che questa crisi non gli sarà fatale, ma quello che dispiace è che non si possa fissare, per così dire, un “prezzo” per la pace. Per quanto elevato sia, sarà sempre meglio che continuare a vivere, di fatto, in guerra». Non ha dubbi, monsignor Edmond Farhat, a Milano per impegni pastorali e ospite del cardinale Tettamanzi, «che mi onora della sua amicizia da oltre 30 anni», spiega.Nato in Libano, impegnato presso molte nunziature, a Vienna, in Tunisia e in Turchia, arcivescovo di Biblos e nunzio apostolico, monsignor Farhat è un conoscitore privilegiato della storia recente e della realtà di quelle zone e in questa veste è stato anche delegato ascoltato e di prestigio al recente Sinodo del Medio Oriente. Assise che tiene a citare quando sottolinea quello che, secondo lui, potrebbe essere il “prezzo” della pace: «Bisogna fare pressione sulla politica internazionale – riflette – perché convinca Israele e Autorità palestinese che un domani di tranquillità è a favore sia dell’uno sia dell’altra. C’è posto per tutti, ci vuole solo un poco di fiducia».Ma è proprio qui che il sorriso gentile lascia il volto del vescovo Farhat, perché la parola fiducia presuppone «smettere di aver paura e, dunque, di farsi la guerra e di uccidere. Ma chi vuole davvero ascoltare parole così?». E se, al Sinodo, i Vescovi della regione hanno chiesto l’intervento dell’Onu, in un tale orizzonte di pacificazione della Palestina, la domanda è ovvia: perché la mediazione dell’Onu e non della Chiesa di Roma? «La Chiesa ha una missione religiosa, porta l’Annuncio e la Parola di Dio, indica e invita, dice la verità oggettiva dei fatti, non sta né con una né con l’altra parte. È per questo che a molti politicanti non piace. Vorrei ricordare Paolo VI che nell’ottobre 1965, di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, scandì: “Mai più la guerra”. E abbiamo visto, in questi decenni, come il suo appello sia caduto nel vuoto. Quante morti e devastazioni da allora… Lei – continua Farhat – che vive nel cuore dell’Europa, a Milano, consideri come la pace ha creato, nelle vostre terre, prosperità, cultura, progresso, dignità riconosciuta alle persone, al loro lavoro e alla loro vita. Le direttive della Santa Sede esistono, ma, talvolta, ho l’impressione che sia il popolo di Dio che non le segue».Tra i frutti che ha prodotto la guerra, c’è anche il martirio, come quello di monsignor Padovese, che lui stesso ordinò vescovo e ha conosciuto bene: «Sono due gli uomini di preghiera e di fede che hanno colpito in modo particolare la mia vita: monsignor Padovese in Turchia e il domenicano padre Pierre Claverie, assassinato in Algeria al ritorno da una celebrazione in memoria dei sette monaci trappisti trucidati a Tibhirine, vicenda cui si ispira il film Uomini di Dio. Padovese aveva studiato i Padri della Chiesa e sapeva che le persecuzioni fanno parte della testimonianza, Claverie era un conoscitore dell’islam. Entrambi avevano uno straordinario rispetto per la gente, a qualunque credo religioso appartenesse. Mi è stata chiara fin dal primo momento la ragione per cui sono stati uccisi: “davano fastidio” ai loro avversari che non potevano trovare ragione per attaccarli». E, forse, anche se monsignor Farhat non lo dice apertamente, è proprio per la “politica” che non facevano, che furono bersagli fin troppo facili da colpire.
Medio Oriente
«Smettere di aver paura, ci vuole fiducia»
Parla monsignor Edmond Farhat, libanese, arcivescovo di Biblos e già nunzio apostolico, delegato al recente Sinodo dei vescovi
di Annamaria BRACCINI Redazione
8 Novembre 2010