07/11/2008
di Stefano VECCHIA
da Bangkok
Il Dalai Lama è ormai scoraggiato. Lunedì 3 novembre, durante il suo viaggio in Giappone ospite di istituzioni religiose e accademiche locali, il Dalai Lama ha precisato, se possibile in modo ancora più amaro e deciso, una convinzione già espressa in altre occasioni nelle ultime settimane: la causa dell’indipendenza tibetana – in un Tibet «condannato a morte dal dominio cinese» – è ormai perduta e occorre che la popolazione tibetana – quella raccolta attorno al governo in esilio in India, ma anche quella della diaspora in molti altri Paesi del mondo e, ancor più, nel Tibet diviso sotto il controllo cinese – decida con pragmatismo, ma anche con urgenza, l’atteggiamento che dovrà d’ora in poi tenere verso Pechino.
«La mia fiducia nel governo cinese è andata sempre più diminuendo. La repressione in Tibet sta crescendo e io non posso fingere che tutto vada bene – ha affermato il Dalai Lama in una conferenza stampa a Tokyo -. Devo accettare il fallimento. Inoltre, in anni recenti l’approccio dei tibetani al problema ha mancato di portare a un’evoluzione positiva all’interno del Tibet e questo ha fatto crescere lo scetticismo. Non vedo, quindi, altra alternativa che rivolgermi direttamente al nostro popolo».
Una settimana prima, lo stesso Tenzin Gyatso – il semplice monaco che la tradizione aveva portato a riconoscere nel 1950 come reincarnazione del suo predecessore e quindi a porsi alla guida religiosa e temporale dei tibetani e dei buddhisti di tradizione lamaista – aveva convocato una conferenza delle rappresentanze dei tibetani in esilio per discutere il futuro del loro impegno per il Tibet, dopo il fallimento dei colloqui con Pechino.
L’incontro si terrà dal 17 al 22 novembre in due fasi. La prima a Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio e residenza abituale del Dalai Lama, cui parteciperanno i soli tibetani; la seconda a Delhi, radunando anche i sostenitori internazionali della causa del Tibet e rappresentanze governative straniere.
Sabato 1 novembre, invece, la massima autorità spirituale del buddhismo tibetano aveva comunicato di voler rinunciare a ogni impegno a favore di una maggiore autonomia del Tibet e che avrebbe chiesto ai connazionali di decidere come proseguire una lotta iniziata nel 1959 con la sua fuga in India.
L’incontro di questo mese potrebbe rappresentare una svolta nel confronto con Pechino, finora conformatosi – nonostante l’insofferenza di alcune frange della diaspora tibetana e la diffusa frustrazione – alle indicazioni del Dalai Lama: “no” all’indipendenza; garanzie per l’identità culturale e religiosa tibetana.
L’iniziativa del Dalai Lama si situa in un momento delicato in cui, accanto a un inasprimento della repressione in Tibet coincisa con le ultime fasi della preparazione per i Giochi Olimpici, si accentua la preoccupazione per le condizioni di salute del settantatreenne monaco che ha finora rappresentato l’essenza stessa della causa tibetana. Le autorità cinesi, che hanno proposto una nuova tornata di colloqui con «i rappresentanti privati del Dalai Lama», hanno anche suggerito ai tibetani di «fare tesoro di quest’ulteriore possibilità».
Quando, nell’inverno del 1959, un giovanissimo Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, fuggiva tra le tormente di neve in India per sottrarsi alla cattura durante un’insurrezione che inutilmente cercava di liberare il Tibet da 9 anni di dura occupazione cinese, pochi nel resto del mondo sembrarono accorgersi che nel cuore della lontana Asia un’antica civiltà, che presentava insieme tratti di arretratezza materiale e di straordinaria forza spirituale, si ritrovava sull’orlo dell’annientamento.
La fuga di 100 mila profughi nella confinante India sembrò ai più l’ennesimo affare interno di un Paese che aveva fatto della segretezza, della copertura ideologica e del misconoscimento dei diritti dei suoi cittadini, un modello. Solo grazie al sacrificio dei tibetani della diaspora e del loro leader (premio Nobel per la pace 1989), la questione tibetana è stata per quasi dieci lustri portata con forza e coraggio all’attenzione del mondo, restando una spina nel fianco di Pechino fino a oggi.
Tuttavia nessun Paese ha mai riconosciuto il governo tibetano in esilio, mentre la crescente integrazione della Repubblica popolare cinese nell’economia mondiale ha relegato la sorte della nazione tibetana in un’ombra da cui neppure la rinuncia all’indipendenza in cambio di un’autonomia certa e garanzie per la sopravvivenza di un’intera civiltà, richieste da un campione della nonviolenza, sono riuscite a trarla.