31/01/2008
di Francesco BONINI
Sembra una matematica legge non scritta del Medio Oriente: quando paiono aprirsi spiragli di pace, subito ritornano venti di guerra. La visita del presidente americano Bush, la prima nell’area, aveva alimentato un certo ottimismo, sia pure ovviamente declinato al futuro. Dopo la sua partenza si è subito prodotta un’escalation di tensioni, che sembrano viaggiare intorno a una rinnovata iniziativa delle forze in un modo o nell’altro legato a un filo rosso che porta all’Iran.
In Libano la situazione è sempre esplosiva. L’ennesimo attentato, l’ultimo alla periferia sud di Beirut, conferma che le fila della pace e della guerra continuano a essere mosse all’esterno: le diverse e intricate fazioni libanesi, che ormai frastagliano i tradizionali soggetti del mosaico culturale, religioso ed etnico della terra dei cedri, come la stessa componente cristiana, stentano sempre più a trovare un equilibrio, tanto più se potenze esterne (dalla Siria ancora una volta all’Iran) hanno tutto l’interesse a promuovere instabilità.
Questo legame esterno è tanto più forte a Gaza: dopo avere determinato la scissione di fatto della striscia – sotto il controllo di Hamas – dal resto dei Territori palestinesi, regola le tensioni ai due confini, quello con Israele e quello con l’Egitto.
In entrambi i casi, paga la povera gente, paga la popolazione civile, mentre i “signori della guerra” agitano i loro mutevoli interessi. Nelle scorse settimane anche il groviglio iracheno, un altro Paese che potrebbe trovare un equilibrio, se non diventasse uno dei nuovi terreni di scontro e di tensione, ne ha dato un’ulteriore, drammatica testimonianza, con la persecuzione dei cristiani, scattata a orologeria. La violenza è l’unica risposta possibile? La pace resta una declamazione, che urta ai ben più corposi interessi che la guerra e la tensione permanente possono assicurare?
Sullo sfondo appunto si gioca la complessa partita degli equilibri geo-politici nell’intera regione. Una questione che passa prima di tutto, ovviamente, per l’Iran, la grande potenza musulmana, ma non araba, sciita e non sunnita, che lancia non pochi segnali di dinamismo: il controverso suo presidente Mahmud Ahmadinejad sarà probabilmente in Iraq entro marzo e la diplomazia di Teheran è in movimento per riallacciare le relazioni diplomatiche con l’Egitto, interrotte trent’anni fa.
Tra petrolio e nucleare, tra energia e politica, il quadro strategico resta precario e contraddittorio. Tuttavia la via della riconciliazione, «dell’abbandono del ricorso a soluzioni parziali o unilaterali a favore di un approccio globale, rispettoso dei diritti e degli interessi dei popoli della regione», per usare le parole di Benedetto XVI al Corpo diplomatico ai primi di gennaio, resta l’unica soluzione per tutti.