05/02/2008
di Marco DOLDI
Generare un figlio senza bisogno del padre. Questa è la sintesi cui si arriva dopo le recenti notizie della rivista inglese New Scientific. Dalla cellula staminale di una donna si crea lo spermatozoo, poi con questo si feconda un ovulo della stessa donna. Risultato: nasce una bambina “clone” della mamma, con il patrimonio genetico (XX per una femmina) dato dalla stessa persona.
La stessa tecnica può anche permettere la nascita di una bambina da due donne, o di un bambino/bambina da due uomini, o di un figlio clone da un uomo. Negli ultimi due casi si dovrebbe ricorrere comunque a un “utero in affitto”.
Alcuni ricercatori inglesi avrebbero già avuto soddisfacenti risultati nei topi e ora penserebbero all’uomo. Ci troveremmo così davanti a una nuova forma di fecondazione artificiale: tutta ancora da verificare, ma comunque preoccupante negli scopi che si propone. La paternità resterebbe solo un retaggio culturale di altri tempi; la procreazione non sarebbe più l’incontro tra due persone, che si amano e si donano l’uno all’altra; anche coppie omosessuali potrebbero avere un figlio biologicamente proprio.
Queste considerazioni sollevano gravi riserve morali, che trovano la loro forza non in motivazioni di fede, ma nella stessa ragione umana: essa non è solo scientifica, ma è anche etica, nel senso che è capace di valutare se una ricerca compiuta sul mondo animale debba essere trasferita all’uomo. La ragione fa capire che ci sono ottime ragioni perché la procreazione resti un fatto umano e non sia un mero evento biologico.
Su questo aspetto è intervenuto nei giorni scorsi Benedetto XVI, constatando come la fecondazione artificiale abbia infranto, in definitiva, la barriera posta a tutela della dignità umana, creando «nuovi problemi connessi, ad esempio, con il congelamento degli embrioni umani, con la riduzione embrionale, con la diagnosi pre-impiantatoria, con le ricerche sulle cellule staminali embrionali e con i tentativi di clonazione umana».
Rivolgendosi ai membri della Congregazione per la dottrina della fede il Papa ha ricordato i due criteri fondamentali per il discernimento morale in questo campo: «Il rispetto incondizionato dell’essere umano come persona, dal suo concepimento fino alla morte naturale; il rispetto dell’originalità della trasmissione della vita umana attraverso gli atti propri dei coniugi».
Davanti ai progetti dei ricercatori inglesi la comunità internazionale dovrebbe chiedere con forza di fermare una pratica che è contro l’uomo e dedicarsi ad altri ambiti, che urgono maggiormente, come quello del superamento delle cause che conducono all’infertilità. Questo è un reale servizio alle donne e alle famiglie.
Segnali positivi provengono da alcuni direttori delle cliniche di Ostetricia e Ginecologia di tutte e quattro le facoltà di Medicina delle università romane: La Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il Campus Biomedico. Secondo i cattedratici, infatti, «con il momento della nascita la legge attribuisce la pienezza del diritto alla vita e, quindi, all’assistenza sanitaria». Di fatto, nel caso in cui un feto nasca vivo dopo un’interruzione di gravidanza, il neonatologo deve intervenire per rianimarlo, «anche se la madre è contraria, perché prevale l’interesse del neonato».
«L’attività rianimatoria esercitata alla nascita – si legge nel testo – dà il tempo necessario per una migliore valutazione delle condizioni cliniche, della risposta alla terapia intensiva e delle possibilità di sopravvivenza, e permette di discutere il caso con il personale dell’Unità ed i genitori».
Il documento è stato presentato al termine di un convegno, promosso dalle stesse cattedre, all’ospedale Fatebenefratelli di Roma, in occasione della Giornata della Vita. «Nell’immediatezza della nascita – afferma Cinzia Caporale, biologa e membro del Comitato nazionale di Bioetica – il medico deve agire in scienza e coscienza sull’opzione di rianimare, indipendentemente dai genitori, a meno che non si palesi un caso di accanimento terapeutico». Infatti, concludono i firmatari, «se ci si rendesse conto dell’inutilità degli sforzi terapeutici, bisogna evitare a ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico».
Si tratta di una presa di posizione, che si motiva sul fatto che l’embrione non è un organo della madre, ma è un essere umano nella fase iniziale del suo sviluppo e, pertanto, ha il diritto alla vita come un adulto. Diritto che, anche in questo frangente, vuole essere ostinatamente negato da parte di chi, in modo anacronistico, ritiene la legge sull’aborto una conquista di civiltà.