Che l’abuso di sostanze alcoliche tra giovani italiani sia un grave motivo di preoccupazione non è una novità. E i costi sociali di un tale consumo sono più o meno evidenti: dall’inarrestabile bollettino di guerra fitto di incidenti mortali causati dall’alcol alle infinite patologie che finiranno per rovinare la salute di chi, da giovane, non ha controllato l’uso di tali sostanze. E dire che la Bibbia stessa non ha mai smesso di magnificare il frutto della vite come ciò che «allieta il cuore dell’uomo».
Le campagne di informazione, negli ultimi anni, si sono moltiplicate, come i provvedimenti penali. Ma evidentemente non bastano, almeno fino a quando non sarà tutta la società a sentire il dovere di un sussulto di moralità. Ho paura che puzzi di ipocrisia la demonizzazione (giusta) degli effetti dell’alcol sui giovani, se non accompagnata da un’altrettanto sacrosanta demonizzazione di tutto ciò che odora di eccesso e di esagerazione.
Due esempi eloquenti. Il primo è la diffusione, troppo a lungo coperta e tollerata, del doping in moltissimi sport. Ha fatto specie che nel discorso inaugurale delle Olimpiadi di Pechino, il presidente del Cio abbia chiesto agli atleti di gareggiare lealmente, evitando sostanze dopanti o quant’altro. Il secondo fenomeno riguarda l’esplosione della cocaina anche in ambienti finanziari, imprenditoriali, delle persone che contano (al punto che Milano sarebbe la città europea col più alto tasso d’uso di tale sostanza).
L’abuso di alcol tra i giovani è cosa molto diversa, rispetto a questi fenomeni, o altri simili? Forse. Ma uguale è la cornice: una cultura dello sballo e della competitività senza regole, per la quale se non vinci non sei nessuno. E se non sei nessuno hai bisogno di protesi per non pensarci troppo. Fino a quando la sbronza non sarà passata.
Roberto Davanzo
Direttore della Caritas Ambrosiana