30/07/2008
di Andrea CASAVECCHIA
Quando si commentano le insufficienze formative e gli insuccessi scolastici dei nostri giovani, spesso si legano alle loro possibili prospettive lavorative.
Così diventa quasi automatico osservare che l’Italia ha una quota di laureati tra i 20 e 29 anni del 31,8%, inferiore al 55,9% della Gran Bretagna, ma anche al 34,7% della Spagna.
La quota di giovani disoccupati, dopo anni di politiche ispirate all’inserimento flessibile, rimane oltre il 20% nel nostro Paese, più alto del 14,4% dei giovani inglesi o del 18,2% di quelli iberici. Questo racconta l’indagine Iard, commissionata dagli Stati generali per l’editoria. La ricerca ribadisce il forte ritardo culturale dei giovani italiani rispetto ai loro coetanei, con i quali dovranno concorrere nel mercato del lavoro competitivo.
Il gap risulta ancora più ampio se si pensa che i nostri mostrano un’istruzione con minori qualità e competenze: -6% in quelle di comprensione linguistica rispetto ai ragazzi tedeschi, -7% rispetto a quelli inglesi, -5% rispetto alla Francia.
Valori che non cambiano di molto, considerando la matematica e le materie scientifiche. Inoltre, spiega lo Iard presentando la ricerca, «leggono meno (al nostro 53,8% corrisponde il 66% della Francia o il 72,3% della Spagna) e utilizzano meno le nuove tecnologie (l’accesso a Internet nelle famiglie italiane è del 43%, a fronte del 67% del Regno unito e del 71% della Germania)».
I dati offrono l’occasione per riflettere sulle potenzialità del “sapere” che richiedono di allargare la prospettiva. Oggi chi ha a cuore il futuro dei giovani non può limitarsi a offrire le competenze tecniche e le informazioni migliori per competere nel migliore dei modi contro gli altri per un posto nel mercato globale.
Questa politica si rivelerebbe assai riduttiva e di scarsa progettualità non soltanto rispetto al giovane. Ridurre i frutti dell’educazione e della cultura alla sola ricerca lavorativa, infatti, rivela una povera idea di società del futuro, concentrata soltanto a sviluppare l’economia.
Le radici di questa incongruenza vengono da lontano. Tradizionalmente il lavoro è stato uno strumento centrale per l’inserimento nella società. Un compito che oggi non riesce più a svolgere perché le trasformazioni in atto da decenni lo hanno destrutturato. Per immaginare le conseguenze di una politica che non si rinnova non c’è bisogno della sfera di cristallo. Alcuni risultati li possiamo scorgere anche adesso, quando ci interroghiamo sulle motivazioni del disagio che caratterizza la condizione giovanile.
Così, quando ci si pone il problema dell’istruzione della nostra società, non è assolutamente sufficiente porsi l’obiettivo di preparare dei bravi lavoratori. Per colmare il vero deficit formativo è la prospettiva che va cambiata. Perché sia fruttuoso investire sulla conoscenza occorre valorizzare le occasioni per creare connessioni tra le tante possibilità offerte oggi all’uomo.
C’è bisogno di coltivare un sapere che allarghi gli orizzonti, che sia capace di mettere i giovani in grado di assaporare il senso della vita e le ricchezze che nascono dal gioco di squadra e dalla condivisione con gli altri. In questo modo non si chiuderà il futuro in un progetto già pensato, che poi molto probabilmente non corrisponderà alla realtà, ma si metteranno le persone in condizione di affrontare in modo nuovo e originale l’epoca che verrà.