31/10/2008
di Enrico VIGANÒ
Il suo sorriso e la sua gioia di vivere contagiano. Quei suoi occhi azzurri sprigionano vitalità e umanità che scuotono chiunque lo incontri. Sono gli occhi di chi ha sofferto molto, di chi è passato dal coma profondo alla vita ed è rinato una seconda volta.
Marco Plebani, 55 anni, di Erba (Como), non dimenticherà mai quei 5 anni trascorsi su un letto di ospedale in coma irreversibile, almeno secondo i medici. Neppure dimenticherà quel 28 giugno 1978, quando in moto viene travolto da un’auto che non ha rispettato lo stop. Cadendo, batte la testa contro il cordolo del marciapiede e rimane immobile. Come morto.
Inizia il suo calvario. Per i medici è irrecuperabile. I suoi familiari non ci credono: Marco in loro presenza mostra quei segni impercettibili del movimento degli occhi e di lacrimazione che solo i genitori sono capaci di cogliere. «No – dicono i medici -, sono riflessi condizionati, non illudetevi».
Papà e mamma invece “si illudono”. Chiedono il consulto di un luminare americano, che consiglia di sospendere l’ospedalizzazione e assistere Marco in casa propria. La casa viene ristrutturata da cima a fondo: Marco inizia il risveglio, graduale e costante, fino a riprendere conoscenza e a muovere gli occhi, la testa, il braccio sinistro e alcune dita. La terapia dell’affetto e dell’assistenza premurosa dei genitori, dei familiari e degli amici dà risultati inaspettati.
Quando muore la mamma, si presenta la necessità del ricovero in una struttura assistenziale per lungodegenti. A Erba non ne esistono, ma qui esistono però gli affetti più cari di Marco: il papà, la sorella, gli amici. Allontanarlo dalla sua città sarebbe controproducente. Allora viene chiesto di ospitarlo alla Casa di riposo “Giuseppina Prina”. Per assisterlo meglio, il padre vende la casa e pure lui si fa ricoverare.
Alla morte di papà, per la sorella Silvana si ripropone lo stesso problema dell’assistenza ininterrotta del fratello: si rivolge in Regione, dove trova aiuto e sostegno perché Marco possa restare alla Ca’ Prina. E così da 19 anni, la camera al primo piano è la sua casa. Sui ripiani dei mobili sono esposti i suoi hobby: i modellini delle Ferrari (di cui è tifoso accanito) e quelle che lui scherzosamente chiama «le schifezze», cioè i souvenir “palla di neve” che gli amici gli portano da ogni parte del mondo.
Su una carrozzina realizzata per lui, accompagnato dai suoi “angeli custodi” (Giorgio, Graziano, Tina, Lia e Antonella) va al mercato, al teatro, al parco. Gioca al computer e invia email in ogni parte d’Italia. «Ha conoscenti ovunque – dice la sorella -, è capace di familiarizzare con tutti. Ciò che mi meraviglia di lui è che, in tutti questi anni di dolore, non si è mai lamentato del suo stato. Ha una fiducia incrollabile: è la fede che lo sostiene. Ha visto morire la mamma, il papà e non si è mai scoraggiato, ha superato tutto. È lui che fa coraggio a noi. Marco dona sempre tutto se stesso e non pretende mai nulla per sé».
Il linguaggio di Marco è gestuale e si esprime soprattutto con gli occhi e con il movimento delle tre dita della mano sinistra. E poi con il computer: una speciale tastiera collegata al mouse gli permette di scrivere e di accendere la tv. Tempo fa ha anche iniziato a scrivere la sua biografia, rimasta però incompiuta: raccontare anni di sofferenza e di dolore è come soffrire di nuovo.
Marco, cosa ricordi di quegli anni? «Ricordo le voci dei medici – risponde -. Bisognerebbe che si dica ai medici di non parlare mai in presenza dei pazienti in coma, perché sentono tutto». Lui era uno studente di medicina e comprendeva molto bene il linguaggio medico. E le lacrime solcano il suo viso.
«È sempre così – interviene la sorella – , quando si parla di quel periodo, si commuove: sentiva tutto, capiva tutto, ma non riusciva a comunicare. Deve essere stato terribile!». La storia di Marco è il caso più eclatante di come l’amore di una famiglia riesca a fare miracoli insperati per la scienza. «Per l’esperienza vissuta – conclude Silvana -, Marco è contrario all’eutanasia ed è a favore della vita».