Intellettuale, dirigente di associazioni cattoliche, fine giurista. E poi politico ed esponente di spicco del maggior partito di governo del secondo dopoguerra (la Democrazia cristiana), costituente, statista. Infine “martire” della democrazia per mano dei terroristi delle Brigate rosse. Il profilo biografico di Aldo Moro è articolato e il suo pensiero in grado di trasmettere insegnamenti anche per l’oggi, quando, a pochi decenni dalla sua scomparsa, l’Italia e il mondo non sono più gli stessi. Moro era nato a Maglie il 23 settembre 1916: a cento anni dalla nascita si profilano diverse occasioni per ricordarlo, mentre è uscita un nuova biografia del leader Dc – “Aldo Moro: lo statista e il suo dramma” (Il Mulino) – firmata da Guido Formigoni, docente di storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, studioso della politica estera italiana, autore di innumerevoli pubblicazioni sul mondo cattolico.
La vita e il drammatico epilogo
Aldo Moro, studente di giurisprudenza a Bari, si forma tra le fila della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), di cui diventa presidente nazionale nel periodo 1939-42, stringendo una solida amicizia con l’assistente Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. Sposatosi nel 1945 con Eleonora Chiavarelli (dal matrimonio nasceranno quattro figli), prosegue la carriera accademica mentre si impegna in politica nella fase della ricostruzione post-bellica. “Padre costituente” eletto tra le fila della Dc, quindi parlamentare, più volte ministro, diviene segretario dello “scudocrociato” nel periodo 1959-64 e per lungo tempo presidente del Consiglio dei ministri (1963-68 e 1974-76). La parabola umana si chiuderà con il rapimento, e la strage della scorta, del 16 marzo 1978 e l’uccisione ad opera delle Br il 9 maggio dello stesso anno.
Società e politica “inclusive”
«Moro crebbe come intellettuale cattolico – spiega Formigoni – dotato di una fede cristiana convinta e di una cultura giuridica in cui spiccava una inconsueta apertura verso la moderna dimensione statuale». Di Moro, allora poco più che trentenne, si segnala uno specifico contributo all’elaborazione della Costituzione: «Egli matura nell’esperienza di elaborazione della Carta fondamentale il senso primario della sua progettualità politica successiva. Dalla condivisione delle battaglie del gruppo dossettiano si convinse che il problema politico essenziale del dopoguerra era perseguire il progetto di Stato democratico e sociale delineato nella prima parte della Costituzione». La stretta collaborazione con Alcide De Gasperi lo convince invece che la Dc poteva muoversi in quella direzione solo portandosi dietro la gran parte del moderatismo italiano. Ma egli elabora inoltre la necessità della “inclusione civile”, nel quadro delicatissimo della guerra fredda. «Qui stava l’intuizione dell’allargamento della democrazia con il centro-sinistra negli anni ’60 e poi il tentativo di coinvolgere più stabilmente il Partito comunista negli anni ’70».
Leader in tempi difficili
Le pagine di “Aldo Moro: lo statista e il suo dramma” propongono una figura complessa, profonda, non sempre apprezzata, tante volte contrastata. Per farsi un’idea di chi fosse Moro occorre rileggerne i lunghi discorsi, comprenderne le strategie politiche, fino a giungere al rapimento, alle lettere scritte dalla prigionia, la morte… «La vicenda oscura del suo assassinio non ne intacca – puntualizza Formigoni – la sua biografia di statista. Oltre che lo stratega delle scelte cruciali per il sistema politico, egli fu anche guida efficace del governo, della politica estera, del Paese insomma, in tempi difficili, quelli della modernizzazione, della crescita esplosiva della soggettività sociale. E applicò a queste vicende il suo peculiare metodo inclusivo di decisioni ponderate e consensuali: quello che ai critici pareva lentezza, rinvio, cinica convinzione dell’immutabilità degli eventi».
Secondo lo storico, Moro «fu politico della parola. Figlio di un tempo in cui la pacata riflessione e la comunicazione di analisi e ragionamenti costituiva la funzione del leader di partito e in qualche modo anche del leader di governo. Egli affrontò con qualche timore i tempi nascenti dell’immagine e della politica di massa: fu tra quelli che vollero portare la politica in televisione (non solo quella di governo, ma anche di opposizione), ma non aveva il carisma e la velocità, o la vis polemica, per “bucare lo schermo”, come oggi si dice». Il suo linguaggio, del resto, fu molto criticato. «È rimasta famosa come simbolo di involuzione l’espressione “convergenze parallele”, che gli fu attribuita dalla stampa per definire il governo Fanfani del 1960, ma egli non l’aveva usata. I suoi lunghi discorsi furono tacciati di essere noiosi, per addetti ai lavori. Molte critiche al suo modo di esprimersi erano però sostanzialmente frutto di malevolenza o di opposizione politica, in quanto i suoi progetti – il centro-sinistra, il dialogo con i comunisti – avevano oppositori acerrimi».
La democrazia dei partiti
Del resto, sostiene Guido Formigoni, «egli era invece anche capace di farsi capire nelle piazze con discorsi logici e conseguenti, anche se non brillanti e mai demagogici o populisti. Era una forma di pedagogia popolare, tipica della stagione della democrazia dei partiti: la politica come lenta introduzione alla comprensione dei fatti e delle scelte possibili».
Alla luce di questo lavoro, in particolare sul rapporto tra “parola” e “politica” oggi, il professore spiega: «La leadership oggi si costruisce tutta sull’immagine, la velocità, la battuta e la capacità di allusione. Ma il limite di questo contesto è che la politica è consegnata ai sentimenti irrazionali, all’umore della pancia degli elettori, al vento dei sondaggi, alla solitudine del leader. Solo un recupero della parola condivisa e ragionata potrà riportare nella politica la gioia dello scambio tra persone, la razionalità del progetto comune, la capacità di tenere insieme qualcosa della complessità della vita sociale e internazionale, proprio tramite la ragionevolezza del discorso politico».