Se i giovani non riuscissero ad avere figli, cosa farebbero? Questo è uno degli interrogativi a cui ha risposto un’indagine in corso di pubblicazione sul prossimo Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo. Tra i 2256 giovani intervistati di età compresa tra i 20 e i 35 anni, più del 40% propenderebbero verso l’adozione o l’affido, mostrando una notevole apertura di fronte a queste opzioni generative, addirittura superiore rispetto al ricorso alle tecniche di fecondazione assistita. Contrariamente a un trend del nostro contesto socio-culturale in cui la dimensione sociale della genitorialità appare offuscata per una eccessiva enfasi sugli aspetti più affettivo-emotivi e per un diffuso appiattimento sul presente, si rintraccia nei giovani una propensione positiva verso la pratica dell’adozione e dell’affido, che al contrario mettono in luce proprio tale dimensione: essere genitori significa infatti in un’ultima analisi crescere le nuove generazioni, la società di domani, garantendo anche ai minori “nati altrove” un contesto di crescita adeguato.
E questi dati non ci sorprendono, vista la lunga tradizione di famiglie accoglienti nel nostro Paese. Nonostante un recente calo nelle adozioni internazionali registrato in tutti i Paesi occidentali e l’elevata età media dei bambini (attualmente di 5,9 anni), l’Italia con 2.216 minori adottati nel 2015 si conferma primo Paese di accoglienza in Europa e secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti. Per completare questo quadro, dobbiamo aggiungere i circa 1.000 minori adottati ogni anno tramite i canali nazionali e i circa 14.000 bambini e ragazzi tra gli 0 e i 17 anni in affidamento familiare.
Adozione e affido dunque rappresentano modi piuttosto diffusi di “fare famiglia”. Su questi temi, presso il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, ormai da decenni si è focalizzata l’attenzione di un corposo filone di ricerca e molte iniziative formative. Ma a quali condizioni sono esperienze praticabili e di successo?
Nell’adozione e nell’affido, alla base del legame che si struttura tra genitori e figlio, è posta la differenza, innanzitutto genetica, cui si associa nei casi di minori stranieri anche la differenza etnica, spesso di lingua e di cultura. E il bambino rimane per sempre connesso a due famiglie: nell’adozione una reale e una, quella di origine, sempre presente sul piano simbolico, nell’affido entrambe reali e compresenti anche se in misura e modi assai differenti. È compito della famiglia adottiva far sì che il bambino possa sentirsi pienamente figlio dei genitori adottivi, appartenente a quella specifica famiglia e alla sua storia generazionale, pur riconoscendo che egli rimane, nel registro biologico, figlio di altri. Solo così il figlio adottivo potrà “approfittare” pienamente della cura e delle risorse che gli vengono offerte nel nuovo contesto familiare.
È compito della famiglia affidataria proteggere il legame del minore con la sua famiglia di origine, aiutandolo a recuperare quello che di positivo viene non solo dai suoi genitori naturali, ma anche dai parenti e dalle generazioni che li hanno preceduti: in ultima istanza, almeno il dono della vita. I genitori affidatari sono chiamati a elaborare le inevitabili tendenze appropriative o riparative che possono permeare la motivazione all’affido, al di là dell’autentico slancio pro sociale che lo caratterizza. L’affido implica per i genitori affidatari l’assunzione di una “genitorialità a termine”, accettando la temporaneità di tale rapporto fin dalla sua origine.
Senza tacere, dunque, gli elementi di sfida, è necessario sottolineare le straordinarie opportunità di queste pratiche di tutela all’infanzia, che rispondono al bisogno primario di ogni bambino, il bisogno di famiglia. Questo il significato più profondo dell’adozione e dell’affido: proteggere l’“essere figli”, condizione costitutiva e accomunante tutti gli esseri umani.
Rosa Rosnati, Raffaella Iafrate ed Elena Canzi
Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, Università Cattolica del Sacro Cuore