«Che gioia profonda mi danno i quadri! Se avessi soldi non farei altro che comprare quadri…». Era, ed è, in buona compagnia, Cesare Zavattini. Lui come noi affascinato dall’arte della pittura, ammaliato dai colori stesi sulla tela, consolato dalle figure create dal pennello, eppure frustrato, in fondo, nell’aspirazione di collezionista squattrinato, nel desiderio pur legittimo del possesso di quella particolare opera che ci emoziona, al di là della sua semplice contemplazione…
Ma Zavattini, lo si sa, aveva del genio. E là dove mancavano i mezzi, riuscì a supplire con la fantasia. Come? Commissionando dei quadri “in miniatura” agli artisti del suo tempo che più lo ispiravano, fissandone le dimensioni in 8 per 10 centimetri (poco più di un pacchetto di sigarette), ma per il resto lasciando gli autori liberi di scegliere tecnica e soggetto. La raccolta ebbe inizio per di più in tempo di guerra, nel 1941, ma andò rapidamente arricchendosi, tanto da ricoprire in pochi anni le pareti della casa romana dello scrittore come una “tappezzeria” multicolore (o come accade con gli ex voto, nelle cappelle di venerati santuari…). Una vera e propria enciclopedia della pittura italiana del Novecento, formata da minuscoli paesaggi, nature mostre, soggetti astratti, ritratti. E che arrivò a contare quasi 1500 pezzi, prima di essere venduta e dispersa dallo stesso Zavattini, negli ultimi anni di vita, sempre per necessità economiche.
Un vero peccato. Pochi anni fa, tuttavia, un nucleo consistente di quelle mini-opere è stato recuperato e acquisito al patrimonio pubblico, e oggi, dopo i necessari restauri, viene per la prima volta presentato al pubblico in una mostra allestita nella Pinacoteca di Brera a Milano. I dipinti in miniatura, cioè, accanto ai grandi – in tutti i sensi – capolavori: un accostamento paradossale (anche se solo fino a un certo punto…), che all’ironico Zavattini sarebbe piaciuto di certo.
La rassegna braidense, aperta fino al prossimo 8 settembre e realizzata in collaborazione con Skira editore (che ne pubblica anche il catalogo), presenta in particolare gli autoritratti che gli stessi artisti realizzarono per lo scrittore emiliano. Un’impressionante e variegata galleria in cui si riconoscono i volti di Balla, Burri, Cascella, Consagra, De Chirico, Depero, Fontana, Guttuso, Ligabue, Munari, Rotella, Sassu, Schifano, Sironi, e decine e decine di altri pittori che si sono resi protagonisti dell’arte italiana nel secondo Novecento, così come loro stessi si sono visti, proposti, ritratti.
Un colpo d’occhio unico, per molti versi. E già ci sembra di vederlo, lo Zavattini sceneggiatore di Ladri di biciclette e di Miracolo a Milano, oltre ad altri bellissimi film del dopoguerra (neorealisti e non solo), in vivace, divertito, domestico colloquio con tanti maestri della nostra arte contemporanea. Lui, Cesare, che del resto ambiva anche a essere pittore; lui che cercava di dar sfogo alla sua esuberante creatività anche con tele e tavolozza. E con risultati non mediocri, in verità, a giudicare dalle opere dello stesso Zavattini esposte nella mostra di Brera: autoritratti anch’esse, naturalmente, giusto perché il “dialogo” risulti più esplicito e diretto.
A completare il “quadro”, è proprio il casa di dirlo, la Sala XV della Pinacoteca accoglie anche un ricco corpus di testimonianze documentali, cartacee e video (lettere, cartoline, brochure, libri, interviste), a ricostruire la complessa e ricchissima personalità di Cesare Zavattini. Materiali da cui emergono, in modo forse inaspettato, anche tracce di una religiosità intima, come latente, a volte smentita a parole dallo stesso scrittore, ma poi riafforante in rapporti epistolari o nelle pieghe stesse di alcune sceneggiature cinematografiche. Fino alla questione fondamentale sull’esistenza di Dio: «Una domanda che vorrei fare a meno di pormi. Ma non posso, proprio non posso – diceva Zavattini in una delle ultime interviste -. Batti e ribatti, l’accetti o fingi di ignorarla, è sempre intorno a essa che gira la nostra vita…».