Che aspetto ha, un santo? E un eroe? Quello di don Mario Ciceri era piuttosto ordinario, forse persino trascurato, sicuramente poco appariscente, fino a sembrare «anonimo»… «Smilzo, quasi timido, di poche parole», scriveva di lui padre Giustino Borgonovo, profondo conoscitore del clero ambrosiano; che aggiungeva: «Al primo vederlo sembrava uno dei soliti pretini, senza doti speciali, di risorse comuni, persino un po’ volgaroccio. Ma tu raccoglievi cinque parole e ti accorgevi di aver conosciuto un piccolo santo».
Proprio questo «pretino», infatti, com’è noto, sarà presto beato. Lui che nel 1985, nel quarantennale della Liberazione, era già stato insignito della medaglia d’oro per il suo eroico contributo nell’opposizione al nazifascismo. Un riconoscimento alla memoria, certo, perché in realtà don Mario Ciceri era già morto da molti anni. Non aveva visto neppure la fine della guerra, in realtà, essendo deceduto il 4 aprile 1945 per le conseguenze di un incidente stradale: apparentemente «banale», come tutta la sua vita, che invece è stata davvero straordinaria.
Dei tanti aspetti della santa esistenza di don Ciceri, allora, nel Giorno della Memoria è bello ricordare proprio il suo impegno nel mettere in salvo e aiutare ebrei, prigionieri, profughi e tutti coloro che furono perseguitati nei mesi terribili dell’occupazione tedesca e della Repubblica sociale, che seguirono l’Armistizio del 1943. Del resto, quasi fosse un segno, Mario era nato proprio l’8 settembre: di quell’anno 1900 che sembrava aprire una nuova era di progresso e di prosperità (una previsione presto tragicamente smentita dai fatti).
Al tempo della seconda guerra mondiale don Mario Ciceri era coadiutore nella parrocchia di Brentana di Sulbiate, vicino a Vimercate, nella Brianza tra Monza e Lecco: una realtà all’epoca ancora in gran parte rurale, che il sacerdote ben conosceva, essendo nato a Veduggio in una povera e numerosa famiglia contadina. A Brentana, d’altra parte, don Mario era arrivato appena ordinato prete, nel 1924, e lì era rimasto: conosciuto e amato da tutti.
Proprio nei boschi attorno a Sulbiate avevano trovato rifugio un gran numero di «sbandati» che erano ricercati dalle milizie fasciste e dalle truppe tedesche: si trattava di militari alleati (inglesi, americani, polacchi…) che erano riusciti a fuggire dai campi di prigionia sfruttando la confusione che era seguita all’annuncio dell’Armistizio; ma tra loro c’erano anche molti soldati italiani che, se catturati, sarebbero stati internati nei lager in Germania; e poi ebrei e perseguitati politici, che rischiavano letteralmente la vita.
Don Mario Ciceri avrebbe potuto far finta di nulla. Aveva i suoi giovani da seguire, il suo oratorio, la sua gente: la sua parrocchia, insomma, per la quale dedicava già tutto il suo tempo e tutte le sue energie. E invece il coadiutore si gettò anima e corpo anche in questa impresa, pericolosissima, coinvolgendo i più capaci e i più coraggiosi fra i suoi parrocchiani. Lui, in prima persona, portava cibo e generi di prima necessità alle persone nascoste, oltre a quell’assistenza spirituale che gli era connaturale.
Come per molti altri sacerdoti ambrosiani, del resto, l’opposizione di don Ciceri alle violenze e ai soprusi del nazifascismo non era iniziata con la disfatta italiana nel conflitto, ma era maturata nella consapevolezza delle libertà negata da un regime dittatoriale. Già nel 1931, infatti, con la chiusura forzata dei circoli di Azione cattolica, don Mario si era distinto per la sua resistenza a quei provvedimenti, fino al rifiuto di consegnare la bandiera dell’associazione, venendo così deferito alla Questura di Milano. Ma lui non si preoccupava degli attacchi dei fascisti: «Sono italiano più che loro – aveva confidato ad un amico -: e sinora per una gioventù buona e forte e moralmente sana ho speso i miei anni migliori: loro non possono dire altrettanto».
In molte occasioni fu proprio don Mario Ciceri ad accompagnare personalmente i ricercati verso la salvezza in Svizzera, dopo aver procurato loro documenti e lasciapassare falsi. E con la sua fidata bicicletta, che non abbandonava mai, faceva di continuo la spola con Chiavenna, la Valtellina e altre zone di confine, macinando anche 250 chilometri alla volta!
Proprio mentre tornava in bici da una delle sue innumerevoli missioni caritative, una sera buia e nebbiosa del 9 febbraio 1945 don Mario si scontrò con un carretto, avendone il fegato spappolato. Morì all’ospedale di Vimercate, dopo due mesi di agonia, tra il rimpianto e il dolore di tutti coloro che l’avevano conosciuto. E che già lo dicevano santo.
Ulteriori informazioni su don Mario Ciceri sul sito dell’associazione a lui intitolata.