«Siamo tutti pakistani», ripeteva con foga Shahbaz Bhatti opponendosi con coraggio nel tentativo di cambiare «la tristemente famosa legge sulla blasfemia, che ancora oggi conduce a giudizio troppi innocenti». Sono in molti a credere che quella frase firmò la sua condanna. Tra questi innocenti anche Asia Bibi, la donna cristiana diventata simbolo di questa lotta a livello mondiale, che Bhatti difese dicendo che «il metodo migliore fosse il confronto: soddisfatto per la solidarietà internazionale attorno alla vicenda, era convinto però che la soluzione si sarebbe dovuta trovare in Pakistan, con le autorità religiose e civili del Paese».
Sul Corriere della sera il giornalista Ferrari Antonio dice: «I suoi migliori amici erano proprio i musulmani, che erano rimasti folgorati dalla passione con cui Bhatti, non ancora ventenne, aveva lottato per bloccare il progetto di legge che imponeva di specificare, sulla carta d’identità, la propria confessione religiosa». Shahbaz Bhatti venne ucciso da un gruppo terroristico islamico per la strada, senza scorta, mentre dopo la preghiera quotidiana si recava al lavoro.
Il volto di una persona è una carta d’identità del proprio carattere. Nel volto di Shahbaz era stampato un «sorriso quasi infantile, l’amore per gli altri e la fiducia nell’uomo. Da cristiano vero e tollerante conosceva tutti i sentieri della comprensione, dell’amicizia, della condivisione dei valori, pur nella diversità delle opinioni». È anche il volto che appare riprodotto sulla copertina del libro scritto da Roberto Zuccolini, giornalista del Corriere della sera, e Roberto Pietrolucci, dal 2000 responsabile della Comunità di Sant’Egidio in Pakistan, dal titolo: Shahbaz Bhatti Vita e martirio di un cristiano in Pakistan (Edizioni Paoline).
Bhatti era uomo di dialogo e aveva conosciuto, frequentato, la Comunità di Sant’Egidio. A soli 42 anni era stato nominato ministro delle Minoranze religiose. Andrea Riccardi, curatore della prefazione, ha conosciuto di persona Shahbaz Bhatti a Roma nel settembre 2010 dove incontrò anche Benedetto XVI. «È morto – scrive Andrea Riccardi – per una causa: liberare i cristiani del Pakistan dalla paura, dall’umiliazione e dalla marginalità, senza mai cercare lo scontro, insieme a un buon gruppo di politici e religiosi musulmani. In questo senso, per le sue battaglie civili, in Shahbaz c’è qualcosa che ricorda Martin Luther King, assassinato nel 1968, proprio l’anno in cui era nato il ministro martire».
Martin Luther King diceva «non ho paura del violento, ma del silenzio degli onesti». Un atteggiamento che troviamo anche nel cammino intrapreso nelle scelte civili e politiche del ministro delle Minoranze religiose. Nel suo testamento spirituale Shahbaz dice: «finchè avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso le mani ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti».
«La sua vita – continua Andrea Riccardi – è stata spesa tutta per le minoranze e per un Pakistan più giusto: il suo agire come politico è stato un servizio alla liberazione». In un Paese dove il 97% della popolazione è musulmano Shahbaz si era guadagnato il rispetto di tutti. «Bhatti era convinto che la giustizia resa alle minoranze rendesse il Pakistan migliore per tutti, anche per la maggioranza musulmana».
Uno dei punti cardine del suo programma fu proprio il rapporto con i musulmani, con loro riuscì a tessere «autorevoli amicizie costruite con passione, dal governo del Punjab, Salaman Taseer, ucciso in un attentato due mesi prima di lui, fino all’imam della grande moschea di Lahore, Abdul Khabir Azad, passando per innumerevoli altri contatti».
Shahbaz Bhatti è stato anche profeta del “sacramento” della relazione con l’umanità attraverso il quale riuscì a costruire ponti di solidarietà. Il testamento spirituale di Bhatti si conclude con queste parole «Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo».