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Devozione

Sant’Antonio Abate: culto, arte e tradizioni in terra ambrosiana

Dall'amato "falò" al porcellino che accompagna sempre la figura del santo eremita della Tebaide (che infatti è patrono degli animali da cortile e domestici), senza dimenticare i gustosi piatti preparati proprio in occasione della sua festa. Ma i frati antoniani si erano specializzati proprio nella cura del "fuoco di sant'Antonio": a Milano erano presenti già nel XIII secolo.

di Luca Frigerio

17 Gennaio 2022

Le meraviglie del Bestiario cristiano, dove perfino il maiale è riuscito a salire… sugli altari! Dal Medioevo, infatti, il suino è compagno inseparabile di uno dei santi più venerati della cristianità: quell’Antonio che, proprio in virtù di questo suo curioso attributo iconografico, è detto «del porcello»: un nero maialino nel quale i fedeli vedevano il simbolo, quasi l’incarnazione, delle tentazioni diaboliche che il santo aveva affrontato e superato.

Dal falò ai dolci
Anche nella diocesi di Milano, del resto, sono numerose le testimonianze di questa antica devozione per sant’Antonio Abate, che si è espressa non solo attraverso moltissime immagini sacre, ma anche con particolari tradizioni ancor oggi diffuse e praticate.

Come il celebre «falò», simbolico rito di purificazione dalle «scorie» dell’anno passato e auspicio della rinascita che verrà con la nuova primavera (un tempo i tizzoni di quel fuoco considerato «sacro» venivano portati a casa per alimentare stufe e camini). O come la benedizione degli animali domestici, dei quali il santo è considerato il protettore: un gesto molto sentito soprattutto nelle campagne, ma ultimamente ripreso anche in ambito cittadino, per la presenza sempre maggiore di cani e gatti nelle nostre dimore. O ancora come la consuetudine, per il 17 gennaio, di preparare apposite pietanze, chiamate, a seconda delle zone e delle ricette, tortelli o frittelle di sant’Antonio (panettieri e fornai, del resto, lo avevano scelto da tempo immemore come patrono, proprio per la dimestichezza col fuoco…).

I frati antoniani
Il culto verso l’eremita vissuto in Egitto tra il III e il IV secolo, ma considerato anche il fondatore del monachesimo orientale (e per questo insignito del titolo di «abate»: la sua storia fu raccontata dal discepolo Atanasio in quello che fu un vero best-seller medievale), riprese grande vigore in Europa con la traslazione dei suoi resti a Vienne, nella Francia meridionale, nel XII secolo, all’epoca delle crociate.

Nel nome del santo taumaturgo nacque anche un nuovo ordine religioso, quello dei frati Antoniani, che seguì la regola agostiniana e che si dedicò soprattutto all’assistenza degli infermi, specializzandosi nella cura di una delle malattie allora più diffuse e dolorose, l’herpes zoster, detta anche «fuoco di sant’Antonio», appunto.

La presenza a Milano
Non sappiamo quando i canonici di sant’Antonio giunsero in terra ambrosiana. A Milano, tuttavia, esisteva una loro precettoria già nel 1272, anno nel quale il podestà fece un decreto per vietare ai maiali di proprietà dei frati con l’emblema del «tau» di razzolare nell’area del broletto, cioè del Comune. Per antica consuetudine, del resto, i suini di sant’Antonio potevano girare liberamente per strade e campi, protetti da minacce di scomuniche e di punizioni (e spesso identificati da appositi «campanellini»), essendo destinati a nobili scopi: proprio il grasso di maiale, infatti, era l’ingrediente principale di alcuni medicamenti che i religiosi avevano messo a punto per alleviare le dolorose infiammazioni causate dall’ergotismo. Naturalmente questa incontrollata circolazione non era ben vista da molti, per evidenti motivi igienici e di decoro; senza contare che alcuni, privi di sacri scrupoli, ne approfittavano per rimpinguare le loro mense e dispense.

A Milano gli Antoniani si insediarono nell’area dove ancor oggi esiste la chiesa di Sant’Antonio Abate, gestendo un «ospizio» che ebbe fama crescente in città e che fu fortemente sostenuto dai Visconti. Gian Galeazzo, in particolare, primo duca della dinastia e «promotore» della nuova cattedrale, nutriva fortissima devozione per l’eremita della Tebaide, al punto di chiedere di essere sepolto con l’abito antoniano, destinando alla sua morte, secondo le regali prerogative, il suo corpo alla Certosa di Pavia (da lui stesso fondata) e le sue viscere al santuario di Vienne, proprio accanto alle spoglie di sant’Antonio.

Ambasciatori per i Visconti
La predilezione dei Visconti per gli Antoniani proseguì anche nella prima metà del Quattrocento, quando i canonici milanesi vennero reclutati come fidatissimi ambasciatori e diplomatici, inviati nelle corti d’Italia e d’Europa, mentre la loro precettoria divenne la cornice prestigiosa dove si firmavano i trattati più importanti dell’epoca, fra armistizi, cessioni e acquisti di territori, contratti di matrimonio.

Proprio lo snaturamento della loro missione ospedaliera originaria, tuttavia, decretò la fine dei religiosi del «tau», che dovettero lasciare spazio al nuovo, grandioso e moderno ospedale della Ca’ Granda.

Gli Antoniani se ne andarono da Milano nel 1452 e da allora non si videro più i loro maiali aggirarsi per la città. Ma il culto per sant’Antonio del porcello rimase più vivo che mai.