Il piccolo diavolo, il Salaì, morì sparato. Un colpo di archibugio lo raggiunse a tradimento, in una notte buia, in una strada di Milano. Non c’erano testimoni, o, se ve ne furono, scomparvero subito, così che nessuno poté dire chi aveva premuto il grilletto. Qualcuno provò a ipotizzare che forse erano stati i francesi, che in quei giorni assediavano la città e spesso facevano incursioni oltre le mura. Ma i più scuotevano la testa, come a dire che se l’era cercata; che non poteva finire che così, per quel tizio che viveva ben al di sopra delle sue possibilità e che trattava con disinvoltura, troppa, i potenti di turno; senza contare i tanti creditori che gli dovevano forti somme di denaro…
Era il 19 gennaio 1524, cinquecento anni fa. Quell’uomo, ucciso in circostanze così drammatiche e misteriose, aveva 44 anni e si chiamava Gian Giacomo Caprotti, ma era conosciuto come Salaì. Era un pittore, uno degli allievi di Leonardo da Vinci: il suo prediletto, come tutti sapevano. Il maestro l’aveva accolto nella sua bottega a Milano quando aveva appena dieci anni, nel 1490, come garzone tuttofare e come modello per le figure angeliche dei suoi dipinti.
Gian Giacomo, del resto, sembrava proprio un cherubino, con quella testa bionda e ricciuta e il profilo greco. Un angelo nell’aspetto, un demonio nei modi. Con naturalezza disarmante, infatti, era solito rubare, mentire, ingannare: i suoi compagni e Leonardo stesso. Che gli diede appunto quel soprannome di Salaì (ovvero Salaino, uno dei diavoli del Morgante di Pulci), ma che alla fine gli perdonava tutto, ricoprendolo di attenzioni e di regali. Secondo le malelingue perché il fanciullo era l’oggetto dei suoi desideri perversi. Più semplicemente perché vedeva in lui quel figlio che non aveva mai avuto.
Gian Giacomo, infatti, al di là delle ribalderie e dei colpi di testa, si era conquistato l’affetto e la stima del genio toscano per la sua devozione filiale, occupandosi anche di incarichi delicati che il maestro di volta in volta gli affidava. Tra le perplessità e l’invidia, possiamo immaginare, degli altri discepoli di Leonardo, forse più dotati, certamente più blasonati, rispetto a questo ragazzo arrivato dalla Brianza, figlio di un fittavolo di Oreno.
Ancora vivente, Leonardo gli aveva donato metà della vigna che aveva ricevuto da Ludovico il Moro a Porta Vercellina. Poi, nel suo testamento, lo fece erede di alcune opere a cui teneva molto: forse anche della Gioconda stessa. Quella Gioconda, chissà, che lo stesso Salaì aveva copiato sotto lo sguardo premuroso e divertito del maestro, magari anche in qualche versione desnuda e ammiccante, secondo lo spirito goliardico del figlioccio e secondo i gusti di una certa committenza.
Ecco, che cosa abbia davvero dipinto Caprotti nella sua trentennale carriera d’artista è da molto tempo uno dei temi più dibattuti tra gli studiosi leonardeschi, dai luminari ai dilettanti. E se ancora un secolo fa al Salaì veniva attribuita qualsiasi opera che fosse anche solo vagamente vinciana, oggi il suo catalogo appare quanto mai incerto e problematico, per non dire pressoché vuoto. Con una certa unanimità gli si riconosce una copia del san Giovanni Battista adolescente – quello del Louvre – conservato alla Pinacoteca Ambrosiana. E anche una delle tante versioni della Madonna con Gesù Bambino e sant’Anna, tratta dal celebre cartone di Leonardo: quella che fu di san Carlo Borromeo e poi del santuario di Santa Maria dei Miracoli presso San Celso, oggi finita in California, all’Università di Los Angeles.
Eppure di lavori Gian Giacomo Caprotti dovette averne fatti molti, a giudicare dalla fama che seppe conquistarsi tra i contemporanei, come testimonia lo stesso Vasari. Perché Salaì era considerato un bravo imitatore di Leonardo, capace di «semplificare» le invenzioni del maestro in moduli più facilmente fruibili da un pubblico benestante, ma non particolarmente attrezzato dal punto di vista intellettuale. E il tutto, probabilmente, proprio con il benestare del Da Vinci, che poteva così accontentare, tramite il suo pupillo, una clientela più vasta e meno esigente.
Per quanto ben remunerata, tuttavia, la sola attività di pittore non spiega la ricchezza accumulata da Salaì nei suoi ultimi anni. Che forse era al soldo di Massimiliano Sforza (il figlio di Ludovico che aspirava a rientrare a Milano), mentre Leonardo era protetto in Francia dal re Francesco, giostrandosi così tra pericolose relazioni, che potrebbero non essere estranee alla sua fine violenta.
Oppure no. Oppure Gian Giacomo fu solo sfortunato a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Di certo le sorelle si consolarono presto, svendendo il patrimonio del fratello, compresi i presunti capolavori di Leonardo. Che se ne era già andato cinque anni prima, così che gli fu risparmiato il dolore per la tragica fine del suo piccolo diavolo.