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Arte, Storia & Cultura

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Percorso

I “ritratti” milanesi di San Tommaso d’Aquino

In occasione dei 750 anni dalla morte del grande teologo e filosofo, riscopriamo le immagini dedicate al Dottore Angelico nella basilica di Sant'Eustorgio, dove sorgeva il più grande convento domenicano di Lombardia, nel quale soggiornò lo stesso Aquinate

di Luca Frigerio

18 Agosto 2024

Il 7 marzo 1274, 750 anni fa, presso l’Abbazia cistercense di Fossanova, nel basso Lazio, moriva san Tommaso d’Aquino, uno dei più grandi pensatori di ogni tempo, vero genio metafisico, sintesi mirabile di fede e ragione. Era nato 50 anni prima (nel 1224 o nel 1225, a seconda delle testimonianze), così che in questi mesi si stanno ricordando importanti anniversari legati al Doctor angelicus: celebrazioni tommasiane iniziate nel luglio dell’anno scorso, ricorrendo il settimo centenario della canonizzazione, che proseguiranno per tutto il 2025.

Anche noi desideriamo offrire un piccolo contributo in questa significativa ricorrenza, segnalando alcune interessanti opere d’arte dedicate all’Aquinate presenti in terra ambrosiana. Un percorso che, naturalmente, si concentra attorno alla basilica di Sant’Eustorgio a Milano, densa di memorie paleocristiane e sede del culto dei Magi, ma che per secoli è stata officiata dai frati predicatori, del cui ordine san Tommaso faceva parte. Accanto ad essa, infatti, sorgeva il grande convento dei domenicani, il più importante in Lombardia e a nord del Po, che per un certo periodo ospitò proprio il santo d’Aquino.

L’immagine del teologo domenicano campeggia in un grande affresco nella quarta cappella di destra in Sant’Eustorgio: un luogo «privilegiato» perché era di pertinenza dei Visconti, signori di Milano, con la presenza della tomba monumentale di Stefano e di sua moglie Valentina, capolavoro della scultura campionese.

Realizzato attorno al 1375, probabilmente per impulso di Bernabò Visconti, l’affresco si presenta purtroppo lacunoso e in condizioni non ottimali: tutta la parte destra, infatti, è andata perduta. Quel che rimane, tuttavia, evidenzia una pittura di alto pregio, motivo per cui gli studiosi hanno ipotizzato il coinvolgimento di uno dei pittori più importanti dell’epoca, facendo il nome di Anovelo da Imbonate, o quello di un artista vicino a Giusto de’ Menabuoi.

San Tommaso d’Aquino è raffigurato al centro, in quella che viene definita una scena di trionfo: il frate domenicano, nel caratteristico abito bianco e nero, siede su un grande trono, che evoca la cattedra del suo insegnamento magistrale, ma soprattutto la sede della divina Sapienza di cui il santo è stato circonfuso. Sul suo petto, infatti, splende una luce, sorta di sole raggiante, che simboleggia la verità e la conoscenza: l’illuminazione intellettuale che il santo teologo ha saputo trasmettere attraverso i suoi scritti.

In alto appare il Signore in gloria, benedicente e con il Libro aperto, come per lo stesso Tommaso: il cui gesto, però, va interpretato come adlocutio, cioè l’atto di parlare e insegnare, come generazioni di studenti l’avevano visto e udito. Nel mentre, gli angeli porgono all’Aquinate le corone delle virtù, i profeti lo indicano a dito, il Tetramorfo degli evangelisti e i Dottori della Chiesa latina gli si stringono attorno: a lui che è stato subito considerato il quinto Dottore, insieme ad Ambrogio, Agostino, Gerolamo e Gregorio.

A completare il «trionfo» celeste e terreno del Doctor angelicus c’è la presenza del pontefice, di un cardinale, di religiosi di diversi ordini e probabilmente anche laici – nella parte perduta dell’affresco – a rappresentare tutta la Chiesa nel suo ruolo di maestra di fede e di conoscenza. Altri personaggi sono raffigurati ai piedi dell’Aquinate, intenti a prendere appunti o a scrivere testi, istruiti e stimolati proprio dal teologo domenicano: quello di spalle a sinistra, in particolare, sembra vestire in modo «esotico», tanto da far pensare a un discepolo orientale, forse in riferimento ad Averroè e al superamento del suo pensiero da parte di Tommaso stesso.

Un impianto allegorico, insomma, complesso e articolato, che recentemente è stato studiato da Marta Maria Gabriella Pozzi (al cui saggio si rimanda per un ulteriore approfondimento). E che riprende altre rappresentazioni simili, come quella di Lippo Memmi a Pisa e quella di Benozzo Gozzoli oggi al Louvre, ma che per ampiezza e profondità trova paragone solo nel monumentale affresco di Andrea Bonaiuti nel Cappellone degli Spagnoli a Santa Maria Novella a Firenze, peraltro pressoché contemporaneo o di pochissimi anni precedente quello di Milano.

La basilica di Sant’Eustorgio conserva anche altre immagini di san Tommaso d’Aquino. Nella terza cappella di destra, ad esempio, è collocato un dipinto con la Vergine e il Bambino che appaiono al frate domenicano, mentre ancora sta intingendo la penna nel calamaio per continuare la stesura di uno scritto, aiutato da due angeli: opera di un certo interesse, di un pittore ancora ignoto, ma che sembra «miscelare» le soluzioni formali del Cerano e di Camillo Procaccini, datandosi quindi al primo quarto del XVII secolo.

Nella sesta cappella, invece, troviamo un’altra pala seicentesca (già attribuita al Duchino, ma probabilmente dell’«oscuro» Francesco Valletta) che mostra il dialogo mistico che l’Aquinate ebbe il 6 dicembre 1273 mentre era in adorazione della Crocifissione in San Domenico a Bologna, allorché il Cristo gli disse: «Bene scripsisti de me, Thoma: quam ergo mercedem accipies?» («Tommaso tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?»). Allorché sam Tommaso rispose: «Non aliam nisi te, Domine» («Niente altro che Te, Signore»).

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