Francesco Capella? «Un giovane di grande aspettativa». Così lo avevano definito «sia i dilettanti che i professori» ai quali il conte Carrara, nel 1747, si era rivolto per avere informazioni su quel pittore veneziano cui voleva affidare alcune nuove, importanti commissioni. Referenze, quelle, forse un po’ indulgenti quanto al dato anagrafico (a 36 anni, infatti, il Capella non poteva certo essere considerato un talento “in erba”), ma che coglievano nel segno nell’indicarlo come un artista che, avendo già dato buone prove, doveva tuttavia ancora mostrare il meglio di sé. Insomma, l’intuito del mecenate bergamasco, fondatore di quell’Accademia che ne porta tutt’oggi il nome, non avrebbe fallito neppure questa volta…
Venezia e Bergamo, la Laguna e le valli Orobiche, sono dunque i due poli attorno ai quali ruotano la vita e la carriera di Francesco Capella, uno dei più interessanti e, per certi versi, originali pittori italiani del XVIII secolo. Ma da poco più di un anno, anche Milano può vantare alcuni lavori del maestro veneto. Si tratta di due tele acquistate nel 2011 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali sul mercato antiquario per la Pinacoteca di Brera, su segnalazione dell’apposito Ufficio esportazione e su proposta della Soprintendenza milanese: opere, cioè, che essendo proprietà di privati avrebbero potuto “prendere il volo” per qualche collezione estera, ma che sono state prontamente quanto opportunamente “riconsegnate” al patrimonio pubblico italiano. E che oggi vengono presentate in tutto il loro splendore in una mostra “inedita”: nuova puntata – la ventinovesima, per l’esattezza – di quel pregevole ciclo chiamato Brera mai vista, appunto.
I due dipinti raffigurano uno l’Annunciazione, l’altro la Fuga in Egitto. Le tele misurano entrambe circa 70 centimetri di altezza per 50 di base e devono essere considerate come modelli preparatori per dei quadri ben più grandi destinati alla chiesa della Beata Vergine del Miracolo a Desenzano al Serio, nei pressi di Albino. Francesco Capella, infatti, ormai al culmine della sua fama, venne incaricato attorno al 1770 di realizzare cinque “quadroni” per gli altari e il presbiterio del venerato santuario bergamasco, in quegli anni oggetto di un vasto rinnovamento: un lavoro prestigioso, che sanciva l’alta considerazione ormai conquistata dal pittore veneziano presso la committenza bergamasca, quella ecclesiastica come quella nobiliare.
Ciò nonostante, pur in mancanza di contratti o di altri documenti, è facile immaginare come al Capella fosse stata chiesta una “prova” di quel che egli avrebbe voluto realizzare a Desenzano, per una previa approvazione. Ecco allora l’esecuzione di questi due modelli, che non sono dei semplici schizzi né degli affrettati bozzetti, ma che appaiono come opere definite sotto ogni aspetto formale e compositivo («attestanti una fase conclusiva del processo creativo», come osserva Amalia Pacia, curatrice della mostra braidense e del relativo catalogo), vere e proprie versioni in scala minore di quelle tele maggiori ancor oggi esposte nella chiesa della Val Seriana.
Francesco Capella, insomma, ci teneva a mostrare ai suoi committenti di cosa era capace, mettendoli in grado di immaginare, con poca fantasia e molta meraviglia, quello che sarebbe stato l’esito finale del suo lavoro. In questi due dipinti oggi a Brera, infatti, c’è davvero tutta l’arte di colui che, fra le botteghe della Serenissima, venne additato come il più dotato allievo di Gian Battista Piazzetta.
Una pittura, quella del nostro, che andò via via arricchendosi del cromatismo del Tiepolo e degli accenti del Ricci, ma che in fondo rimase sempre “diversa” da tutte le altre, “impermeabile” alle suggestioni lombarde, tesa semmai a un nostalgico quanto impossibile revival del grande stile veneziano d’inizio Settecento. Con il risultato di una visione più sentimentale, di linee più morbide, di colori più trasognati, che appaiono davvero la cifra stilistica di Francesco Capella.