Analfabeta, senza dimora, emarginato perché considerato mezzo matto. Così povero da dover dipingere con colori e arnesi di fortuna, su improvvisate superfici: muri, tegole, finestre… Eppure Francisco Domingo da Silva, vagabondo fra le terre dell’Amazzonia, aveva un talento eccezionale per la pittura. Le sue mani disegnavano belve dalle fauci spalancate, uccelli dal piumaggio come l’arcobaleno, uomini e donne dai volti segnati e dal sorriso trattenuto: cromie vivacissime e figure di una realtà trasognata, quasi a riecheggiare quelle che Antonio Ligabue andava tracciando nella bassa emiliana più o meno negli stessi anni, in una comunanza umana e spirituale, prima ancora che artistica.
Come Ligabue, infatti, anche da Silva è considerato un maestro della pittura naïf. Forse il più grande, il più geniale fra i latinoamericani. Tanto che, dalle favelas di Fortaleza e Recife, le sue opere sono approdate in alcuni dei più importanti musei di arte contemporanea del mondo. Chi voglia farsene un’idea, può visitare oggi la bella mostra proposta dal Museo Popoli e Culture del Pime a Milano, che oltre ad alcuni lavori del pittore-clochard brasiliano presenta anche un’importante selezione di dipinti naives di vari artisti di diversi paesi del Centro e del Sud America, fra i più significativi del Novecento.
Artisti, certo. E a pieno diritto. Anche se, a ben considerare, nessuno di loro poteva dirsi pittore di “professione”, né poteva vantare una preparazione accademica. L’haitiano Préfète Duffaut, ad esempio, dal segno visionario e surreale, per mantenersi costruiva canoe e piroghe. Il suo connazionale Joseph Jasmin, invece, animato da uno spirito “francescano” nel cogliere il mondo della natura, faceva l’operaio in una fabbrica di mattoni. Telegrafista fu José Antonio Velásquez, classe 1906, considerato il pioniere della pittura naïf in Honduras. Così come Peralta era sarto, Chex contadino, Bottex falegname, Grégoire soldato e sassofonista, Chéry barbiere e benzinaio… Maria Teresa Salarruè, scomparsa nel 1994, era una suora: ma anche poetessa, scrittrice e illustratrice di libri per l’infanzia, tanto da essere considerata fra le principali personalità culturali del Salvador moderno.
“Artigiani” del colore, insomma, le cui opere mostrano, per lo più, scorci prospettici approssimativi, figure stranamente proporzionate, dettagli esagerati, ingigantiti, surreali… Eppure, o forse proprio per questo, si tratta di dipinti affascinanti, bellissimi nella loro coinvolgente vivacità. Dipinti che non vogliono rappresentare la realtà così com’è (pretesa che questi nostri pittori giudicherebbero inutile, prima ancora che assurda), ma che aspirano semmai a trasformarla, a reinventarla, a trasfigurarla, senza per questo tradirla, in un mondo che ha gli accenti della fiaba e della semplicità, in una quotidianità che sembra voler vivere di poesia. Un “reale meraviglioso”, appunto, come recita il titolo stesso della rassegna milanese.
Ed è una questione di sguardo, prima ancora che di ragionamento. Quello sguardo amorevole e “ingenuo” – questo, del resto, significa il termine “naïf” – che si posa sulle cose più care, sui volti più noti: quelli che circondano l’artista, che ne costituiscono il suo vissuto, il suo presente, il suo passato e, probabilmente, il suo futuro. Ed ecco allora queste “processioni” di uomini e donne, queste famiglie che scendono e salgono per monti e contrade, che si incontrano, che si abbracciano. Ecco la gioia della festa, la responsabilità de lavoro, il colore che si fa musica e canto.
Un ritratto dell’umana avventura, in fondo più vero del vero.
Fino al 15 luglio presso il Museo Popoli e Culture del Pime a Milano (via Mosè Bianchi, 94), da lunedì al sabato (9-12.30 e 14-18). Per informazioni, tel. 02.43820379 – www.museopopolieculture.it