Questa è la storia di un presepe nato in un lager nazista, nel Natale del 1944, da un gruppo di internati militari italiani. Un presepe che dopo la liberazione è tornato a casa insieme ai sopravvissuti, venendo donato alla basilica di Sant’Ambrogio a Milano, dove ancora oggi si trova. Di tutte le statuine, realizzate con brandelli di stoffa e altri materiali di recupero, mancava solo il bue, perduto nell’odissea del ritorno. Oggi un’associazione culturale di Wietzendorf, la città tedesca dove sorgeva quel campo di prigionia, venuta a conoscenza di questa vicenda ha voluto offrire quella figura mancante, modellata da una loro artista, come gesto riparatore e di giustizia. Dopo 78 anni, così, per la prima volta non mancherà più nessuno attorno alla mangiatoia del presepe degli internati di Wietzendorf.
Avevamo raccolto questa storia dalla viva voce del protagonista, Tullio Battaglia, una trentina d’anni fa, raccontandola sull’allora settimanale diocesano Il nostro tempo di Milano. Battaglia al momento della deportazione nei lager, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aveva trent’anni ed era sottotenente di artiglieria. Nel campo di Wietzendorf, tra Hannover e Amburgo, erano stati internati seimila soldati, rinchiusi fra atroci privazioni perché, come altri seicentomila militari italiani, non avevano voluto accettare di continuare a combattere con i nazisti, né aderire alla Repubblica sociale di Mussolini.
Artista, decoratore, arredatore, docente, Tullio Battaglia fin dal suo arrivo nel lager era stato ribattezzato dai compagni di prigionia col nome di «Mastro Wietzendorf» per la sua incredibile genialità nell’arte di arrangiarsi. Il sottoufficiale trovava infatti il modo di costruire ingegnosi capolavori di artigianato che il più delle volte avevano un vitale impiego pratico, ma che spesso servivano anche solo per divertire o distrarre i propri compagni di sventura.
Ma il suo capolavoro durante la prigionia fu proprio quel presepe. Sollecitato dal colonnello Pietro Testa, straordinaria figura di «anziano del campo», Battaglia lavorò attorno ad un’idea del tutto nuova, in modo da rappresentare l’umana varietà rinchiusa nel lager, cercando di ricordare a ciascuno almeno un segno della propria casa lontana. Così, con un coltellino da scout (miracolosamente scampato ad ogni perquisizione), una forbicina robusta, un cardine di una porta come martello, alla luce di un lumino che ognuno contribuì ad alimentare togliendo una piccola parte alla microscopica razione di margarina, nacque questa sacra rappresentazione.
La nostalgia per la propria terra spinse Tullio ad ambientare la scena in un angolo di una tipica cascina lombarda, dove un’umile contadina s’avvicina al Bambin Gesù, stretto tra le braccia della Vergine Maria. Attorno ci sono i Re Magi, la tessitrice che confeziona la «vituperata» bandiera tricolore, lo zampognaro abruzzese e il pastore calabro, presenze poetiche del presepe e «rappresentati» degli sventurati compagni di prigionia, di ogni parte d’Italia. Un po’ in disparte, infatti, si intravede anche il militare italiano internato, nella sua divisa lacera ma dignitosa, quasi intimorito ad avvicinarsi oltre alla mangiatoia. Accanto a lui perfino il «barbaro» tedesco, guerriero dalla forza bruta e cieca che, finalmente illuminato dall’amore del Bambinello, depone ai suoi piedi le armi. Infine san Francesco, omaggio a colui che volle ricreare a Greccio la suggestione della nascita di Gesù, ottocento anni fa.
«Il presepio di Wiezendorf è un ricordo di tanti, tornati e rimasti», ci aveva confidato Battaglia, con gli occhi lucidi per la commozione e la voce tremante. Perché ciascuna statuina è fatta con ciò che ogni prigioniero, nella sua totale povertà, ha voluto donare, privandosi di cose enormemente care, ricordi, brandelli di vita passata che il coraggio di ciascuno aveva trasformato in segni di speranza.
Quella Notte santa del 1944 il presepe della prigionia, deposto su un altare improvvisato nella Messa clandestina celebrata dall’indimenticato don Costa, risplendeva nell’oscurità morale e materiale in cui gli internati si dibattevano giorno dopo giorno: denutriti, tremanti di freddo, stretti gli uni agli altri, ma con gli sguardi colmi di commozione.
Domenica prossima 17 dicembre, nella Messa delle 10.30, l’ultimo atto di questa epopea: quando la delegazione di cittadini di Wietzendorf consegnerà tra le mani dell’abate di Sant’Ambrogio a Milano il bue novello perché sia aggiunto al presepe del lager, allestito per l’occasione su un altare della basilica, come segno di amicizia, di riconciliazione, di speranza. Tullio Battaglia, insieme a tutti i deportati, ne sarebbe stato enormemente felice.