Adagiato sulla cima del colle, nel cuore della Brianza, il santuario di Montevecchia si preannuncia da lontano, discreto eppur vivo, macchia di luce vaniglia sospesa tra i verdi del parco naturale del Curone e l’azzurro di quel cielo di Lombardia «così bello quand’è bello», come diceva Manzoni. Da un lato, la mole frastagliata e rassicurante del Resegone. Dall’altro, la piana distesa che inurbandosi va incontro alla metropoli di Milano.
Un monte dal quale vigilare
Chi li ha contati, assicura che i gradini della scalinata che porta alla chiesa sono 181. Una piccola prova, una breve ascesa che invita concretamente a elevarsi, ad alzare lo sguardo, a osservare le cose, fuori e dentro di noi, con occhi diversi. Ed è infatti come un Sacro Monte concentrato, questo santuario brianzolo. Sentinella nella notte, è il Mons Vigiliae degli antichi, dove la «veglia» è stata trasformata nella parlata popolare in «vecchia» (vegia), ma senza irriverenza, anzi a ribadirne l’antica sacralità del luogo.
Sì, antica. In epoca romana doveva sorgere quassù una torre d’avvistamento, fortino in posizione strategica per il controllo del territorio. Ma prima ancora, chissà, la collina doveva ospitare alla sua sommità un’area sacra, come alcuni ritrovamenti e varie testimonianze in zona lascerebbero supporre. Di certo i longobardi vi fondarono una cappella, intitolata al loro santo patrono: san Giovanni Battista, al quale ancor oggi il Duomo di Monza, basilica fondata da Teodolinda, è dedicato.
Il Carmelo brianzolo
Ma era soprattutto la Vergine che i fedeli del contado venivano a pregare in questo solare santuario, vicino al cielo, innalzato dagli affanni della quotidianità, come confidando che le mormorate invocazioni potessero salire più rapidamente alle orecchie premurose della Madre divina. E Carmelo lombardo divenne così Montevecchia, il monte santo d’Israele, il giardino di Dio nuovamente fiorito in quest’angolo della Brianza lecchese.
Un incendio distrusse quel primo tempio, così che dovette essere ricostruito fin dalle fondamenta in età borromaica. Con linee semplici, volumi architettonicamente aggraziati, di una bellezza senza fronzoli, concreta in un certo qual modo, come si addice alla devozione di gente pratica e laboriosa. A mezza costa, in edicole oggi sciupate, ma un tempo dipinte e scolpite, si snoda il percorso della Via Crucis. All’interno, invece, sull’altare maggiore, è posta la venerata statua lignea della Beata Vergine del Carmelo.
Affreschi di un vivace barrocchetto ricoprono le pareti della chiesa, quasi fiabeschi nei toni, come nell’incantevole «Adorazione dei pastori», dove il Bambino Gesù rifulge fra gli sguardi estatici degli uomini, delle donne, dei fanciulli e perfino degli animali chiamati alla grotta di Betlemme. Sono opera di Giambattista Gariboldi, pittore di talento, attivo nella seconda metà del Settecento, il cui pennello ha lasciato pregevoli prove soprattutto nei sacri edifici della terra brianzola (e un’immagine ormai frammentata, ma assai cara, nel Pilastrello padernese lungo la strada Comasina).
Il santuario di Montevecchia – divenuto ufficialmente tale con la nascita, negli anni Venti del secolo scorso, della nuova parrocchia e con la successiva consacrazione del cardinal Schuster – per la sua posizione panoramica e la sua quieta dolcezza ha affascinato nei secoli viaggiatori e pellegrini, celebri e non.
Nelle cronache delle visite pastorali, ad esempio, resta traccia dello stupore degli stessi arcivescovi ambrosiani giunti quassù, dal cardinal Pozzobonelli nel XVIII secolo (un vero intenditore di paesaggi, a giudicare dalla sua collezione d’arte, oggi esposta al Museo diocesano a Milano) al cardinal Martini una trentina di anni anni or sono («Qui è così bello, che sembra già inizio del Paradiso…», disse alla folla convenuta attorno al colle). Per non parlare dei molti scrittori, da Cesare Cantù a Mario Soldati, tutti impressionati dalla serena bellezza di questa naturale balconata brianzola.
Una santa di genio…
E poi ci sono almeno due altre buone ragioni per spingersi da queste parti. La prima riguarda una figura straordinaria, anche se non nota come meriterebbe, che visse proprio nella dimora patrizia all’ombra del santuario. Si tratta di Gaetana Agnesi, una donna che per la sua sapienza, il suo genio, la sua umanità seppe imporsi in quel Secolo dei Lumi che amava definirsi progressista, ma che si dimostrava ancora tenacemente maschilista. Poliglotta fin dalla più tenera età (al punto da essere detta “Oracolo Settelingue”), matematica sopraffina, scienziata dalle idee pionieristiche, non c’era campo dello scibile umano dove l’Agnesi non fosse ferrata. Ma Gaetana scelse infine un’altra strada, quella della carità cristiana, trascorrendo tutta la sua esistenza – morì ottantenne nel 1799 – a soccorrere i poveri e i bisognosi. Una targa, nella piazzetta che precede la salita al santuario, ne tramanda la memoria (ne parliamo ancora nel testo in basso, perché la figura è di grande valore).
…e vino e formaggi
La seconda ragione per salire a Montevecchia può apparire forse più materiale, ma non è meno invitante. Si tratta infatti della possibilità, ben nota soprattutto ai gitanti domenicali, di assaporare nelle semplici taverne della zona delle squisite merende a base di salumi locali e, soprattutto, dei tipici formaggini di Montevecchia, appunto, accompagnati dal vino – rosso e bianco, fermo o mosso – che da tempo immemore si ottiene proprio dall’uva che matura sulle pendici di queste colline. Una delizia, per il palato e per gli occhi.
E mentre l’orizzonte si tinge d’ocra e d’arancio e lo sguardo coglie la luna sorgere fra i cipressi e il campanile, la certezza che lassù qualcuno veglia su noi riempie di pace il cuore. E, da dovunque si arrivi, ci si sente a casa, finalmente.