Il Segno, il mensile della Diocesi di Milano, nel numero di aprile ha pubblicato un’ampia intervista a Daniele Mencarelli, scrittore già Premio Strega, tra i vincitori del Premio «Fuoco dentro» (leggi qui). Ne pubblichiamo una sintesi.
Daniele Mencarelli è un poeta. Cesella le parole. Spoglia la vita. Interroga il mistero. Ingaggiando serrati duelli con il bene e il male. Nulla racconta, tutto mostra: linguaggio teso, a servizio della realtà. In gioventù, ha visto il dolore da vicino. Si è perso innumerevoli volte, ritrovandosi spesso a un palmo dal baratro della fine. Vinto prima da dipendenze ed eccessi; salvato poi dallo stupore della grazia. Sono seguiti successo e fama. Eppure lui è rimasto fedele a se stesso: persona sempre, personaggio mai. Qui, passando in rassegna alcuni temi fondamentali – dalla fragilità alla felicità, dal dolore alla disabilità, dalla sofferenza alla speranza -, restituisce la scoperta di ciò che conta veramente, ne attesta la verità. Ogni vita è una storia sacra.
Dai bambini dell’ospedale pediatrico ai ricoverati di un ospedale psichiatrico, lei dà voce e volto ai fragili: la vita vituperata dalla vulnerabilità. Sono presenze, ma nella società fondata sulle prestazioni e sulla perfezione, retrocedono a «scarti», citando papa Francesco…
I cosiddetti “scarti” sanno correre in soccorso del prossimo. Dentro questa umanità vulnerabile, aiutano chi ha bisogno; vivono i Vangeli; abitano coloro che sanno farsi carità senza pretendere nulla in cambio. Un’umanità che sa ancora obbedire al sentimento della compassione. Sembra un paradosso: chi sta male dovrebbe essere egoista; invece sa diventare prossimo. L’uomo che è toccato dalla prova ne conosce il peso, quindi cerca di sollevare l’altro da questo giogo.
La domanda sulla sofferenza sembra sempre orfana di risposta: perché Dio permette il dolore e la morte degli innocenti?
I bambini non sono fatti per il dolore, nascono dalla gioia. Quale strada invisibile per noi umani giustifica queste vite tolte al mondo? Nessuno ha la risposta: è un mistero. Dovremmo essere umili anziché presuntuosi, rifuggendo la superbia di Adamo di fronte all’Albero dei perché, alla seduzione del male che vorrebbe renderci padroni delle risposte. Sono un aspirante credente e un progressista tragico: credo nel progresso, quindi. Però nulla, neppure la più sensazionale scoperta scientifica, per quanto all’apparenza decisiva per il genere umano, scalfisce la grandezza del mistero. Oggi è l’enormità della vita a dare fastidio, il miracolo dell’unicità dell’individuo, mentre la scienza vorrebbe contenere, catalogare, censire. Con l’avanzare dell’età e la fine della vita terrena, come il protagonista di Elogio dell’Ombra di Borges, arriverà il momento delle risposte: questa è la speranza che abita e agita la mia ricerca. Un grammo di verità.
Foriera di traumi e tormenti, ma anche di bellezza e benedizione, la vita può essere un anticipo di beatitudine?
Tutto, in questa vita, invoca salvezza, ci chiede militanza. La gioia interrotta, l’amore alla prova della morte e del dolore. Fronteggiare l’orrore per sfondarlo. Abbiamo un impegno nella militanza, nell’essere presenti qui ed ora rispetto a sentimenti umani che non chiedono di essere spiegati, bensì vissuti. Non serve capire, ma condividere.
I giovani, dicono, sono incapaci di concepire il fallimento e sognare in grande…
Ho un’enorme stima dei giovani, appaiono indifesi, ma sono consapevoli. Indifesi perché aspirano a raggiugere certezze definitive: possedere il destino, conquistare il futuro, incontrare Dio. Invece, la “militanza” richiede la conversione quotidiana. Questa è una meravigliosa occasione per imparare dai propri fallimenti, fare tesoro di cadute, errori, sbagli. Vivere la militanza come rinnovata possibilità di salvezza anziché come condanna immutabile.
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