«Dio venuto nella carne povera degli uomini la avvolge di una luce nuova, capace di dare senso a ogni aspetto della vita quotidiana» (cardinale Angelo Scola): durante il Tempo natalizio, quale invito alla meditazione e alla contemplazione del mistero della Natività del Signore, presso l’altare di San Giovanni Bono viene esposto un antello della vetrata detta del “Nuovo Testamento”, situata nella navata meridionale del Duomo.
Originariamente destinato all’omonima vetrata – che già dal 1414 la Fabbriceria della Cattedrale aveva commissionato per il ben più importante finestrone dell’abside – quest’antello fu eseguito negli anni Ottanta del Quattrocento. Proprio in quell’epoca, infatti, era ripresa la realizzazione, interrotta per alcuni decenni, di quella parte del programma iconografico previsto fin dalle origini per le grandi vetrate absidali, con il complesso scultoreo e i quasi quattrocento vetri dedicati alla storia della salvezza narrata dalle Sacre Scritture. Gli episodi del Primo Testamento, a sinistra di chi guarda verso l’abside, le visioni dell’Apocalisse, al centro, e gli episodi tratti dai Vangeli e dal libro degli Atti degli Apostoli, sulla destra. Gli interventi di restauro ottocenteschi operati dalla bottega dei Bertini, che comportarono la sostituzione e la dispersione di tanta parte del patrimonio vetrario quattro-cinquecentesco del Duomo, determinarono la collocazione attuale degli antelli superstiti del Nuovo Testamento – tra cui appunto quello raffigurante la scena del presepe – nella quinta finestra della navata meridionale, in una ricomposizione pur coerente sotto il profilo narrativo, ma ridotta e lacunosa per la mancanza di tanti episodi della vita del Signore sicuramente facenti parte della vetrata più antica.
Particolarmente prezioso, quindi, quest’antello della Natività, la cui paternità – da sempre avanzata dalla critica su considerazioni stilistiche e recentemente confermata su base documentaria – è da ascrivere a Vincenzo Foppa. L’artista eseguì il cartone, che fu poi trasposto da Cristoforo e Agostino de Mottis in tessere vitree colorate, completate per la parte grafica – lineamenti, chiaro-scuri, definizione di architetture o di volumi – dal disegno eseguito a grisaille. Se nella descrizione dell’episodio emerge la colta e umanistica convenzione figurativa della “crepa” e l’inizio della rovina della chiave di volta dell’arco classico di sostegno della casa, rimando simbolico alla fine dell’era pagana e all’avvento di quella cristiana per la nascita del Salvatore, l’impostazione e il tono di tutto l’antello sono molto lontani da un mondo riservato all’erudito e all’inclita. Non ci sono altri personaggi fuorché la sacra Famiglia, l’ambientazione e il paesaggio sono ridotti all’essenziale, i due animali sono intenti a mangiare. Giuseppe è appoggiato al suo bastone e la Vergine inginocchiata, a mani giunte, guardano assorti il Bambino, con la manina alla bocca, posato a terra, adagiato su un lembo dello stesso manto di Maria, a proteggerlo dalle asperità e dal freddo del terreno.
Nonostante i pesanti inserti ottocenteschi – che purtroppo hanno riguardato il capo della Vergine e di san Giuseppe, gran parte dell’architettura, del terreno e il muso del bue – è rimasta l’originaria impostazione ed è ancora possibile ritrovare i modi del Foppa nella morbida ampiezza dei volumi, nell’intonazione dei colori, nelle parti originali della chiara e argentea grisaille, ma soprattutto nell’atmosfera pacata e assorta nella quale la scena viene descritta. Una narrazione attenta a particolari concreti e vicini alla realtà di quanti – all’epoca la maggior parte dei fedeli – percorrendo il Tornacoro della Cattedrale potevano accostarsi agli episodi evangelici solamente attraverso le immagini delle vetrate. Poter riconoscere una mangiatoia, la figura consueta di un asino, l’atteggiamento e il gesto di un bimbo, rendeva ancor più vero e vicino il Mistero rappresentato. È l’umanità nella sua semplice quotidianità di cose e di affetti, in cui Dio ha scelto di abitare: «Mio Dio, mio Dio bambino […], che impari a vivere questa nostra stessa vita, che domandi attenzione e protezione […], mio Dio che vivi soltanto se sei amato, che altro non sai fare che amare e domandare amore, insegnami che non c’è altro destino che diventare come te» (Ermes Ronchi).