Osserva, s’interroga, cerca, ma senza affanni, senza pretendere di tutto comprendere. Alla vita, Luciano Erba, lascia volentieri quel soffio di magia, quel tanto di imprevedibile che la rendono, se non bella, se non facile, interessante da vivere. Coglie frammenti, Erba, attingendo alla memoria, fermando il presente. Scorci che si fanno parola, intuizione, messaggio. E su tutto uno sguardo d’ironia, ora affettuosa, ora tagliente, mai distaccato.
Il fatto che sia considerato una delle voci poetiche più significative del nostro tempo, del resto, non scompone la sua chioma canuta. Quel che importa, a Luciano Erba, è che la sua curiosità per il mondo che lo circonda sia sempre la stessa, che la sua capacità di stupirsi non sia mutata. E davvero è ancor oggi così, mentre sicuro veleggia ormai verso gli ottant’anni.
Figlio di una Milano attiva e schietta, Erba mal sopporta questo clima di intrighi e bustarelle che ha “sporcato” troppe mani e troppe coscienze. Amico di padre Turoldo, prova delusione per questi tempi che han smarrito la metafisica, e rabbia per chi ha cessato di insegnarla. Da sempre in cammino, ha ben sperimentato quanto sia difficile orientarsi «nei dintorni del nulla». Ma non dispera, Luciano Erba. Perché sa che il fruscìo di foglie o il raggio di luna, se lo vorremo, ci salverà.
Professor Erba, quello con Milano è per lei un legame che dura da molto tempo…
Sono milanese “doc”, tanto da parte materna quanto da quella paterna. Ma non penso che questo sia un merito. Bisogna vedere, piuttosto, se si è degni di una città come Milano…
Com’era la Milano della sua infanzia?
Il quartiere Magenta, dove sono nato, era allora una zona di periferia: c’era molto verde, ortaggi soprattutto. Vicino passava la ferrovia: con i miei coetanei frequentavamo un terreno libero nella “ipsilon” della biforcazione tra Porta Genova e San Cristoforo. Prati per decine di ettari, incolti: baracche abbandonate e un fascino delizioso per dei ragazzini. I sassi della massicciata diventavano formidabili proiettili per le nostre fionde. Eravamo per bande: io con i figli dei dipendenti comunali e dei tramvierii; dall’altra parte i figli degli statali, degli immigrati del Sud, degli ex combattenti e dei mutilati di guerra.
Poi, finiti gli anni tragici della guerra, la voglia di ricominciare, di ricostruire… E, tra amici, tante cose di cui discutere, su cui confrontarsi.
Ci si trovava spesso al Blu Bar, in piazza Meda, un locale che oggi non c’è più: “padrone di casa” era Sergio Solmi, un’autorità nella Milano finanziaria di allora. Si parlava volentieri di letteratura anche se la consegna era quella di chiacchierare soltanto di sport. Si ordinava in genere un caffè, solo che aveva più soldi prendeva l’aperitivo. Carlo Bo, poi divenuto rettore dell’Università di Urbino, era silenziosissimo; Eugenio Montale si fermava poco, lavorava al Corriere della Sera, diceva sempre che doveva andarsene di corsa; Vittorio Sereni, accesissimo tifoso dell’Inter, discuteva con Giansiro Ferrata, milanista sfegatato. E poi ancora Alcheschi, Dorfless, Sforzini…
Ma dagli anni della sua giovinezza a oggi, come è cambiata Milano secondo lei?
In peggio, senza dubbio. In questi ultimi tempi noto qualche timido segnale di ripresa, ma francamente non sono troppo ottimista. Ferrari, negli anni Sessanta, è stato un buon sindaco, l’ultimo che il capoluogo lombardo abbia avuto. E la colpa maggiore di questa “decadenza” è di quella “nomenklatura” che ci amministra, di quei burocrati incapaci che sopravvivono ad ogni colore politico.
Ma Milano può aspirare ad un ruolo di “capitale” europea?
La vocazione di Milano è di essere cerniera tra il Nord e il Sud, ponte tra l’Europa centro-settentrionale e il Mediterraneo. È sempre stato così, oggi come ieri. In questo senso, Milano è veramente una città europea. Ma “capitale” direi proprio di no: avrebbe bisogno di maggiore libertà, e invece è continuamente frenata dal resto del Paese…
C’è chi accusa Milano di “provincialismo”.
E sbaglia, perché Milano è certamente la meno provinciale di tutte le città italiane. Non prende abbagli, non si fa impressionare da mode straniere che altrove vengono subito assimilate… I milanesi sono forti di una saggezza accumulata nei secoli, che li porta a ben valutare le novità, a prendere solo quanto c’è di valido e di utile. Sa dove si trova la “vera” Milano?
Non so: molti dicono sui Navigli, ad esempio…
Sciocchezze. Si parla tanto di Navigli, di Porta Ticinese, di Porta Garibaldi, ma sono solo speculazioni immobiliari. La Milano autentica la si incontra in metropolitana, nei grandi magazzini: una Milano fatta di gente attiva e sempre in movimento, che sa bene cosa vuole e dove vuole arrivare. Una città borghese, insomma, che lavora e che è concreta.
Ma una città di questo genere offre degli spunti ad un poeta?
Certamente. Milano ha un paesaggio semplice, industriale, forse persino un po’ squallido: ma proprio la mancanza di facili suggestioni permette alla poesia di scavare più a fondo, di non essere mai banale. La poetica della grande città è la poetica delle cose meno note, che sono poi quelle che hanno sempre qualcosa da rivelare.
Ecco, professor Erba, parliamo delle sue poesie. Spesso nei suoi scritti emerge la difficoltà a orientarsi nella vita. Ma c’è una “bussola” per l’uomo d’oggi?
L’umiltà può essere una valida Stella polare, ma sono in pochi a seguirla. È bene allora lasciarsi guidare dall’intuito. Quanto a orientamento, inoltre, credo, senza voler sembrare un “devozionista”, che gli uomini di fede abbiano, per così dire, un sostegno in più, quello dello Spirito Santo. L’importante, comunque, è non smettere mai di cercare.
Quanto conta per lei la speranza?
Molto. Ma la mia speranza è sempre accompagnata da una forma sapienziale, come nel Qohelet.
Ma nella vita prevalgono i dubbi o le certezze?
I dubbi sono sempre con noi: in questo mi ritrovo nella pagine di sant’Agostino sulla fede e sul dubbio. Ma per “tirare avanti” abbiamo bisogno di certezze. Certezze a volte relative, valide cioè in un certo momento della nostra vita, e poi magari messe in discussione. Quel che non è accettabile, invece, è il “tentennare”: lo considero un segno di opportunismo, di furberia.
«Quel che conta è il raggio di luna», leggiamo in una sua lirica. È forse un invito a “cogliere l’attimo”?
Direi piuttosto un invito a cogliere il valore della bellezza, che è un valore assoluto, divino. Il «raggio di luna» è qualcosa di bello, di emozionante, che vale più delle banalità quotidiane.
C’è sempre un tocco ironico nelle sue opere. Cos’è per lei l’ironia?
È una chiave di lettura della realtà, uno strumento di conoscenza. Soltanto uno sguardo ironico mi permette di vedere le cose nella loro essenza, nella loro verità.
Con partecipazione?
Con partecipazione e senza presunzione alcuna. In alcuni casi, inoltre, l’ironia mi difende anche da un eccesso di coinvolgimento. Ma non è timidezza, né desiderio di fuga: è solo che mi occorre un certo distacco per dare il giusto peso alle cose.
«Sogno» e «segno» sono termini che ricorrono spesso nelle sue poesie. Forse per un continuo mescolarsi tra illusione e realtà?
Credo che la mia poesia si muova bene nella dicotomia sogno-realtà. E questo perché la poesia, ne sono convinto, vive di ambiguità. Un’ambiguità che passa dal poeta al lettore, il quale a sua volta, nelle poesie, è libero di trovare certezze o passare a una nuova ambiguità.