Luce e ombra. Abbruttimento e bellezza. Miseria e speranza. Come in Caravaggio. Ancora Caravaggio? Sì, ancora. Guardate i ritratti fotografici di Lee Jeffries e dite se non vi sembra di immergervi in una tela del gran pittore lombardo. Di quel Michelangelo Merisi che prendeva i suoi modelli dalla strada, che fece scalpore per i piedi nudi e sporchi buttati in faccia allo spettatore, per i suoi santi che riprendevano i diseredati accolti da san Filippo Neri, per le Madonne con i visi di cortigiane. Caravaggio che impastava la sua tavolozza di colore, sangue e sudore. Caravaggio che cercava l’uomo e il suo spirito: nonostante tutto, oltre ogni abiezione, sempre.
Così Jeffries, le cui foto, una cinquantina, dal prossimo 27 gennaio sono esposte al Museo diocesano di Milano, in una mostra prodotta e realizzata dal Museo stesso, curata da Barbara Silbe e dalla direttrice Nadia Righi. Una carrellata di volti, per lo più primissimi piani. Uomini e donne dalla vite segnate. Alcuni anziani, altri giovani, giovanissimi. Sono sbandati, homeless, clochard, senza fissa dimora, barboni, come di volta in volta vengono chiamati, con più o meno disprezzo. Povera gente gettata ai margini della società, dimenticata, reietta, invisibile. Invisibile anche per Lee Jeffries, fino a quando non ha incontrato il loro sguardo.
Guarda il video di presentazione della mostra.
Jeffries è un fotografo per caso. Nato cinquant’anni fa nei dintorni di Manchester, nell’industriosa Inghilterra del nord ovest, ha studiato economia e finanza, senza palesare particolari interessi artistici. Le prime foto le ha scattate per pubblicizzare i prodotti in vendita nel suo negozio di articoli sportivi, e poi per documentare gare ed eventi. Proprio partecipando a una maratona a Londra, nel 2008, vide una donna avvolta in stracci nel portone di un palazzo: la scena, nel suo contrasto, gli parve interessante e Lee ne fece una ripresa. Pensava di non essere stato notato, e invece la giovane clochard cominciò a inveire contro di lui: Jeffries, allora, si scusò per averla fotografata furtivamente e parlando con lei venne a conoscere la sua triste storia, le ragioni per cui, ad appena 18 anni, si trovava a vivere per strada e di stenti.
Poteva rimanere un episodio isolato, un fatto «insolito», di quelli da raccontare agli amici al pub o con un post sui social. Quell’incontro, invece, ha cambiato la vita di Lee Jeffries. Che da quel giorno ha sentito come un’urgenza, la necessità di portare alla luce le vite di tante, troppe persone cadute nel buio della solitudine, dell’abbandono, dell’emarginazione. E poteva farlo proprio attraverso le sue foto: un’altra scoperta, per lui. La consapevolezza di avere un talento insospettato: la capacità di cogliere l’anima, dietro i volti.
Da allora Jeffries non ha più scattato di nascosto. Ha cominciato a girare per le città e le metropoli: inglesi, americane, anche in Italia. E quando gli capita di incontrare un emarginato, quando lo va a trovare nel suo rifugio, inizia una lenta, delicata, rispettosa fase di conoscenza reciproca, durante la quale la macchina fotografica rimane chiusa nella sua custodia. Ci si confida, si piange e si ride, insieme. E quando la persona ha piacere, quando si sente pronta, è lei stessa a chiedere a Lee di farle un ritratto, mostrandosi nella verità della sua condizione: senza finzioni, senza pietismi.
Immagini splendide, potenti, commoventi, vere. Realizzate per lo più in un vibrante bianco e nero, contrastato, esasperato, eppure mai falso, che esalta le rughe, le ciocche spettinate, le unghie sporche – Caravaggio, ancora! – e soprattutto gli occhi, quelle pupille cristalline o nerissime che ci scavano dentro, e che ci interrogano, e che non ci lasciano.
Sono foto che non nascondo nulla dei drammi vissuti dalle donne e dagli uomini ritratti: vicende che possiamo solo intuire, nella loro desolazione. Foto, tuttavia, che restituiscono a queste persone la loro dignità, che nessuna lordura può sporcare, che nessuna disgrazia può cancellare. È per questo che il lavoro di Jeffries è straordinario. Per la sua empatia, per il suo lasciarsi coinvolgere, che permette anche a noi spettatori, visitatori occasionali di una mostra, di lasciarci coinvolgere. In un moto di compassione, che non è semplicemente un brivido di emozione, ma, letteralmente, il condividere, per un istante, per sempre, il medesimo destino, lo stesso sguardo.
«Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine»: dal 27 gennaio al 16 aprile 2023, a Milano presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini (p.zza Sant’Eustorgio, 3). Per informazioni su orari, costi e visite guidate: tel. 0289420019; www.chiostrisanteustorgio.it .