Eccolo, l’Uomo dei dolori. Umiliato e disprezzato, come profetizzava Isaia, trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Deposto dal patibolo della croce, il Cristo emerge dal sepolcro, le braccia incrociate sul ventre, gli occhi chiusi. Non c’è sofferenza sul suo volto, ma come una dolente tristezza, mentre il delicato incarnato mostra il pallore della morte. È solo, il Figlio dell’uomo. Nessuno ad abbracciare il suo corpo, nessuno sulle strade tortuose che si snodano alle sue spalle. Tutto è silenzio, come un respiro trattenuto, nell’attesa che il mistero si compia. Ma già il fiorire di un arbusto nella luce dell’aurora, sembra annunciare l’imminenza di un nuovo tempo, la nascita di un nuovo mondo infine redento…
Una Imago Pietatis di rarefatta bellezza, databile attorno al 1457. Su un piccolo cartiglio, in basso, al centro, la firma orgogliosa dell’artefice: Giovanni Bellini, uno dei protagonisti del rinascimento italiano, che poco più che ventenne sembra già avere la consapevolezza di esserlo. Lui che, figlio di Iacopo, l’autentico padre della pittura veneziana del XV secolo, ha già assorbito dal cognato Mantegna segreti e maestria, ma senza timori o sudditanza alcuna.
L’opera – che pubblichiamo qui accanto – è uno dei capolavori conservati presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano, acquistata dallo stesso conte Gian Giacomo, singolare figura di mecenate e collezionista, negli anni in cui si faceva l’Italia unita. Opportunamente restaurata, con la sua luminosità ritrovata, la preziosa tavola belliniana è oggi al centro di una piccola ma interessante rassegna, realizzata e allestita presso la stessa casa-museo milanese. Obiettivo della quale, appunto, è indagare e illustrare come si sia evoluta l’iconografia della Pietà nella giovanile produzione di Giovanni Bellini, analizzandone la maturazione del linguaggio artistico e la formazione di un suo stile unico e personale. Il tutto, naturalmente, in rapporto alla cultura pittorica italiana del secondo Quattrocento.
Un intenso, seppur breve itinerario che prende le mosse da quello che è considerato lo schema figurativo originario dell’Imago Pietatis, cioè quelle immagini nate in ambito bizantino in età medievale, e ben conosciute proprio a Venezia (per la sua vocata apertura verso il mondo orientale), raffiguranti l’Akra Tapeinosis, cioè la “somma umiliazione” di Cristo: a loro volta, probabilmente, derivate dall’esposizione del Mandylion, cioè la sacra Sindone. Nella mostra milanese è presentata, infatti, un’icona con tale soggetto dei primissimi anni del XIV secolo (proveniente dal Museo di Torcello), che potè servire a Giovanni Bellini – proprio questa o altre ad essa simili – come modello e punto di partenza per le sue creazioni.
L’artista veneziano, del resto, e ben lo si osserva già nella tavola del Poldi Pezzoli, aggiorna e sviluppa il tema bizantino partendo innanzitutto dalla raffigurazione naturalistica del corpo di Gesù e inserendolo in un paesaggio e in un’atmosfera di immediata verità, senza rinunciare tuttavia a un complesso codice di simboli.
Soltanto pochi anni più tardi, Giovanni torna sul tema della Pietà introducendo anche le figure della Vergine e di san Giovanni in chiave mantegnesca (così è, infatti, nella tavola dell’Accademia Carrara di Bergamo), umanizzando profondamente la scena e coinvolgendo così psicologicamente anche lo spettatore devoto nel compianto dei dolenti. Partecipazione che, appena un lustro avanti, si fa anche celebrazione nel corpo di Cristo del mistero eucaristico, come evidenzia l’opera del Museo Correr, influenzata dalle intuizioni di Donatello ma qui reinventata anche da una nuova tecnica coloristica, che permette a Bellini inediti effetti di trasparenza e luminosità.
Un pathos misurato e sublime che attorno al 1470 sfocia nello straordinario capolavoro di Rimini, dove il maestro venezia abbandona il consueto schema verticale a favore di uno orizzontale, con quattro angioletti a sorreggere il Cristo che sono una meraviglia di grazia e dolcezza. Mentre sembrano riecheggiare i versi stessi di Dante, del Paradiso: «Chè più largo fu Dio a dar sè stesso / per far l’uomo sufficiente a rilevarsi / che s’elli avesse sol da sè dimesso».