La Terra Santa non è un posto qualunque: è un luogo speciale, la terra che ha dato origine alla nostra fede, dove affondano le nostre radici e nella quale i cristiani devono dare testimonianza di una speranza che non demorde di fronte all’evidenza. «In Terra Santa chi non crede nei miracoli non è realista»: un detto che riassume molto bene ciò che può trovarsi di fronte chi si reca laggiù.
Sono trascorsi molti anni dal 1978, anno in cui vi misi piede per la prima volta. Dalle attività di scavo e restauro promosse all’epoca sul Monte Nebo da padre Michele Piccirillo, frate dello Studium Biblicum Franciscanum della Custodia di Terra Santa di Gerusalemme e indimenticabile archeologo internazionale, ho tratto moltissime informazioni sull’architettura palestinese di duemila anni fa: suggerimenti basilari per un presepista che intende realizzare il proprio lavoro attenendosi il più fedelmente possibile alle strutture e ai costumi di allora. Ma sono state un’autentica scuola anche sotto l’aspetto sociale e per i rapporti umani con la popolazione locale. E ogni anno il ritorno laggiù arricchiva il mio spirito, così come le esperienze di vita comunitaria costituivano una linfa vitale da conservare e da far fruttare.
Già lo scorso anno la vicinanza del Nebo (dove sorge il Memoriale di Mosè) alla parrocchia cattolica di Madaba, mi aveva permesso di organizzare un corso pratico di presepismo. Ma quest’anno, nel mese di ottobre, abbiamo osato di più: in stretta collaborazione con l’architetto Osama Hamdan del Mosaic Centre di Gerico e la dottoressa Carla Benelli di Ats Pro Terra Santa, abbiamo organizzato un corso pratico tenutosi presso il Ceramic Centre di Nisf Jubeil, vicino a Sebastia.
Un’iniziativa nata nel contesto dei progetti dell’Associazione Pro Terra Sancta, che sono finalizzati al sostegno e alla formazione delle comunità cristiane, all’opera di conservazione e valorizzazione dei Luoghi Santi, all’aiuto umanitario alle popolazioni in difficoltà, ma anche all’incontro e al confronto con l’altro, a prescindere da ogni appartenenza religiosa, condizione sociale e provenienza etnica. Proporre la realizzazione del presepe, rispettando il contesto architettonico palestinese, anche a persone di fede musulmana, ha così rappresentato, oltre all’aspetto costruttivo e artistico, un momento di convivenza e confronto. Un incontro con persone di religione diversa per cercare di scrutare il misterioso disegno di Dio che opera in tutti i cuori secondo lo Spirito, superando la logica di uno scontro che serve solo a innalzare muri e a distruggere i ponti.
La reciproca conoscenza, il mutuo rispetto e il desiderio di costruire insieme hanno così permesso un incontro corretto e fraterno, permettendo di ottenere un risultato insperato e ponendo le basi per un dialogo proficuo. La costruzione del presepe quale mezzo trasversale di dialogo ha promosso un laboratorio di tolleranza e di speranza, come pure di solidarietà e di carità pratica. Di fronte alle fatiche che la convivenza tra gruppi diversi richiede, la luce della fede è il faro al quale riferirsi, senza turbamenti per le pietre d’inciampo che si incontrano lungo il cammino.