A chiusura del bicentenario verdiano e wagneriano, aperto lo scorso 7 dicembre con il Lohengrin del compositore di Lipsia, il Teatro alla Scala di Milano ha inaugurato la nuova stagione d’opera e balletto con La traviata, uno dei più noti e amati capolavori del genio di Busseto. L’ultima edizione piermariniana, più volte ripresa nel corso degli anni, risaliva al 1990, diretta da Riccardo Muti, cantata da giovani allora sconosciuti (Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e Paolo Coni), per la regia di Liliana Cavani e la messinscena di Dante Ferretti e Gabriella Pescucci: operazione audace e innovativa, pur con un forte legame con la tradizione, che valse all’allestimento l’inaugurazione, nel gennaio 2002, del Teatro degli Arcimboldi, sede provvisoria della Scala durante i lavori di restauro che hanno interessato il teatro dopo la ricorrenza del centenario dalla morte di Verdi.
Quanto proposto ieri si collocava su di un piano totalmente diverso, in particolare per quanto riguarda la messinscena, che, com’era prevedibile (e quasi certamente voluto se non addirittura sperato da chi l’ha ideata), ha suscitato reazioni contrastanti nel pubblico, con forti contestazioni a conclusione dello spettacolo. L’ambientazione pensata dal giovane regista russo Dmitri Tcherniakov (peraltro non esordiente sul palcoscenico scaligero), giocata esclusivamente in interni, collocava il dramma diversi decenni successivi rispetto a quanto immaginato dal librettista Francesco Maria Piave e da Verdi («1850 circa», recita la didascalia del frontespizio): scene e costumi erano riconducibili agli anni Trenta del Novecento, lasciando però un che di vago e indefinito che consente un’interpretazione anche in chiave più contemporanea della tragica vicenda amorosa dell’opera. L’intento attualizzante di Tcherniakov era dichiarato e, rispetto ad altri recenti allestimenti scaligeri, è risultato più legittimo, più convincente, più meditato; ma non esente da alcune incongruenze e da soluzioni opinabili.
Un amore nevrotico e borghese:
Di Violetta, il personaggio senza dubbio maggiormente curato e studiato sotto il profilo registico, è stato messo in luce il lato energico, deciso, all’occorrenza sprezzante, di contro alla sostanziale fragilità e alla quasi innocenza, per quanto innocente possa essere Violetta, a cui si è più spesso adusi: quella proposta è una vera “escort” abbrutita dal mestiere che esercita, all’inizio una traviata convintamente impenitente, così come poi si trasforma in una donna altrettanto risoluta nel contrastare (fin dove le è concesso dalla situazione e dal contesto sociale in cui si trova suo malgrado immersa) le richieste di un quasi-suocero perbenista, bigotto e ottuso; anche la passione amorosa nei confronti di Alfredo (nonché di Germont padre) e il rapporto con Dio e con il proprio destino manifestano una passionalità concreta e determinata, diversa forse dai canoni a cui si è abituati ma non priva di un suo fascino e di una buona plausibilità caratteriale.
La vera patologia di Violetta non è più la tubercolosi, quanto la nevrosi: i costanti movimenti frenetici del personaggio e la narcisistica cura della propria immagine che si palesano fin dal preludio dell’opera sfoceranno nell’ossessione compulsiva e letale dell’ultimo atto (forse il regista ha preso spunto dai versi del primo atto «Follie!… follie!… delirio vano è questo!…» e del terzo «Ah, dunque fu delirio la credula speranza»?). Trovata certo non “filologica”, ma portata avanti con coerenza e che potrebbe ben sposarsi, senza contraddirlo, con il “mal sottile” di cui è affetta la donna e che, soprattutto, viene espressamente citato/cantato: non ha quindi alcun senso che il Dottor Grenvil risponda ad Annina, naturalmente in riferimento a Violetta, «La tisi non le accorda che poche ore» battendosi la tempia con il dito indice ad indicare la sola follia psichica della protagonista.
Analogamente, non è in sé irragionevole che Violetta si adoperi di persona per offrire il tè in una sorta di tinello borghese della villa di campagna al padre del suo amato/amante, nel second’atto: può essere un gesto tutto sommato normale, ben inserito nel contesto rappresentativo e segno della volontà di una redenzione attiva; ma le frasi angosciate, frante e sospese «Ah no… tacete… terribil cosa chiedereste certo… il previdi… v’attesi… era felice… troppo», con cui la protagonista presagisce quanto sta per avvenire e come si svolgerà la sua fine, non possono essere pronunciate quasi con indifferenza armeggiando con le stoviglie!
Viceversa è stata molto efficace l’idea, nella stessa lunga e intensa scena con Germont padre, che quest’ultimo si rifiuti inizialmente di stringere la mano alla sua interlocutrice e provi dapprima una forte ripulsa ad abbracciarla «qual figlia», come lei stessa chiede, salvo poi mutare gradualmente i propri atteggiamenti. Meglio non commentare invece l’improbabile parrucca indossata da Violetta nella festa a casa di Flora (durante la quale peraltro si sono verificati alcuni inconvenienti esecutivi), così come l’interazione tra i due protagonisti nel corso del concertato che chiude lo stesso atto è risultata poco coerente con quanto espresso dal testo verbale; senza contare che non v’è reale traccia delle Zingarelle e dei Mattadori che pure dovrebbero animare la medesima festa.
Un’altra trovata dagli esiti alterni è stata quella di evitare il più possibile che i personaggi cantassero le proprie arie in modo statico e senza altri attanti, uno degli stereotipi inverosimili del melodramma. Se particolarmente efficace è risultato il racconto di Violetta ad Annina (personaggio a cui è stato attribuito un rilievo scenico molto maggiore del consueto) alla fine del primo atto, se l’idea che Alfredo si confidasse con Giuseppe all’inizio del secondo mentre sbriga le faccende di casa era altrettanto valida, nello stesso momento è invece fuori luogo che sia presente e interagisca anche Violetta di cui si sta parlando in absentia; e abbastanza ridicolo che il giovane si metta ad affettare freneticamente verdure mentre il padre cerca di rabbonirlo durante la propria cabaletta.
La direzione d’orchestra e gli interpreti:
il trionfo della protagonista Diana Damrau
Ma veniamo ora all’esecuzione musicale, che, in un’opera lirica, costituisce pur sempre l’aspetto precipuo. La direzione di Daniele Gatti, benché sonoramente contestata alla fine della serata, è stata nel complesso apprezzabile: seppur priva di un taglio originale e di particolari raffinatezze, la concertazione è risultata quasi sempre pulita, precisa, drammaticamente efficace ed equilibrata, ben amalgamata con le voci e le esigenze dei cantanti, ottenendo dall’orchestra scaligera una prestazione ragguardevole quale – spiace dirlo – purtroppo da alcuni anni a questa parte non sempre è dato ascoltare.
Destano invece perplessità alcune scelte e alcuni punti specifici: se non dispiace l’opzione di utilizzare per l’ultimo atto la tessitura dei violini più acuta prevista da Verdi per la prima assoluta dell’opera ma poi dallo stesso compositore cassata, ben più critiche si sono dimostrate alcune cadenze canore, così come, all’interno di una versione sostanzialmente filologica (secondo l’edizione curata da Fabrizio Della Seta) l’omissione delle ultime battute dei cantanti alla fine dell’opera è un inspiegabile controsenso; così come non si capiscono le ragioni per cui tanto l’aria quanto la cabaletta di Germont padre siano state staccate ad un tempo tanto rapido. Ciò che però più strideva nella direzione era il suo contrasto rispetto alla messinscena: sostanzialmente tradizionale la prima, altamente provocatoria e innovativa – come detto – la seconda.
Nel cast primeggiava senz’ombra di dubbio la Violetta del soprano Diana Damrau. Se tanto la presenza fisica quanto la condizione vocale siano state indubbiamente inferiori rispetto all’altra ‘prima’ scaligera affrontata da questa cantante (forse in – troppo – pochi ricordano la sua prestazione nel ruolo eponimo dell’Europa riconosciuta di Salieri, nel 2004, alla riapertura del teatro del Piermarini dopo i lavori di restauro, sotto la direzione di Muti), la Damrau ha lavorato a fondo sul personaggio dandone un’interpretazione tanto vocale quanto scenica di assoluto rilievo: sono emersi i diversi lati del personaggio, il fraseggio è stato sempre ben curato, si sono avuti momenti indubbiamente emozionanti e toccanti; anzi, sebbene soprano di coloratura e dunque di per sé più adatto alle agilità del primo atto (qui non sempre impeccabili e, in generale, con timbro spesso asprigno sulle note ‘di passaggio’, al di là della sgradevole imprecisione sulla puntatura del mi bemolle sovracuto conclusivo di tradizione da cui la cantante avrebbe fatto meglio ad astenersi), la statura esecutiva ed interpretativa della Damrau è cresciuta nel corso dell’opera, regalando un «Addio del passato» commovente e la cui seconda strofa ha ricevuto il giusto contrasto emotivo rispetto alla prima, così come molto efficace, nella stessa aria, è stata la straziante invocazione alla misericordia divina: una Violetta che prefigura molto dappresso la Manon pucciniana di «Sola, perduta, abbandonata». Le ovazioni finali del pubblico hanno reso ragione di tale performance.
Nettamente inferiore il resto del cast. Il tenore Piotr Beczala ha al suo attivo una discreta presenza scenica, ma vocalmente e interpretativamente le cose non sono state troppo soddisfacenti: voce in sé gradevole sebbene non preziosa, è però viziata da un’emissione troppo spesso opaca e ingolata, con scarsa propensione e capacità di sfumature; ne è sortito un Alfredo generico, talvolta impreciso ed emotivamente poco trascinante, da cui i fischi conclusivi degli spettatori (sebbene forse eccessivi).
Più convincente, ma alterno, il Giorgio Germont di Željko Lučić: il timbro schiettamente baritonale e l’imponenza scenica hanno messo in luce solo il lato più austero e anaffettivo di questo padre, tralasciando quasi del tutto la componente più sentimentale; inoltre talvolta la voce perde di squillo e di precisione intonativa, malgrado vada dato atto al cantante di aver eseguito nel complesso correttamente le fiorettature esageratamente veloci di «No, non udrai rimproveri». Poco da dire sui personaggi secondari, quasi tutti di medio livello oppure scadenti. Meritano una menzione specifica solo Annina e il Commissionario: la prima perché interpretata da Mara Zampieri, ex soprano primadonna oggi a fine carriera (con un esito in bilico tra l’interessante e il patetico); il secondo perché cantato dal bravo Ernesto Panariello, uno degli ultimi comprimari stabili della Scala (che già nelle prime repliche dell’edizione mutiana aveva impersonato il Domestico di Flora).