Girando per chiese e monasteri, osservando le sculture nei chiostri o sui capitelli, può capitare di imbattersi nella curiosa immagine di un uomo intento a togliersi una spina dal piede. Ebbene, una di queste figure – che ricorda in maniera sorprendente il cosiddetto “Spinario” o “Cavaspino”, celebre statua dell’età ellenistica – la ritroviamo anche a Milano, tra i rilievi romanici dello splendido ambone della basilica di Sant’Ambrogio, di cui ci eravamo già occupati su queste pagine a proposito di un sorprendente asino che suona la cetra.
Ma perché, viene da chiedersi, una simile raffigurazione, anche se non comune, è presente proprio nelle decorazioni medievali di sacri edifici? Che cosa rappresentava, in realtà, per i cristiani di quel tempo? E qual è il suo significato simbolico?
Per cercare di rispondere a queste domande, dobbiamo cercare indizi e riferimenti nella Bibbia e nei testi patristici, nonché in tutte quelle fonti che hanno ispirato così profondamente l’arte cristiana. E bisogna partire, naturalmente, proprio dall’ambone santambrosiano, realizzato nella prima metà del XII secolo da maestranze lombarde, e riscostruito attorno al 1200 dopo il crollo della volta della basilica. Qui, nella lunetta del lato meridionale, vediamo raffigurati Adamo ed Eva, separati dall’albero della conoscenza e affiancati dal serpente tentatore: sulla destra vi è un’altra figura umana, che indossa una lunga tunica e pare impegnata a zappare. Si tratta, molto probabilmente, di una anticipazione, quasi una “proiezione”, del destino che ormai toccherà al genere umano in conseguenza di quel peccato originale: trarre di che vivere dalla terra con fatica e sudore, come si legge nella Genesi.
Nel riquadro, successivo, infatti, l’artista romanico ha voluto dare forma ancora più precisa alla condanna divina: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre» (Genesi 3, 17-18). Ed ecco, infatti, sulla sinistra, un uomo che regge con entrambe le mani una grande falce. Il nostro “spinario” invece, lo troviamo sulla parte destra della medesima lunetta: l’uomo è accovacciato, intento alla delicata operazione di estrarre una grossa spina dalla pianta del suo piede. Una scena di sorprendente realismo: l’estremità ferita, infatti, appare coerentemente denudata (si scorgono con chiarezza le dita), laddove il piede “sano” del personaggio è invece calzato. Entrambe le raffigurazioni, dunque, traducono con efficacia nella pietra i versetti biblici, mostrando la fatica del coltivare e i dolorosi imprevisti che la terra, con le sue spine, può riservare all’uomo.
Riferimenti a rovi e spine, del resto, abbondano in tante pagine dell’Antico Testamento, esperienza quotidiana per gli ebrei che da millenni vivono in un ambiente arido e in gran parte desertico. Le spine, così, diventano di volta in volta allegoria delle “spigolosità” della vita, simbolo efficace del peccato che tormenta l’anima dell’uomo, punizione metaforica per la disobbidienza ai comandi divini, richiamo alle disgrazie che si abbattono sugli empi, emblema delle sventure che perseguitano i nemici di Israele o delle tribolazioni che mettono alla prova i giusti…
Immagini che ritornano con insistenza anche nei Vangeli. Celebre in questo senso la parabola del Seminatore: una parte del seme, infatti, «cadde tra le spine e le spine crebbero e la soffocarono» (Matteo 13, 7; Marco 4, 7; Luca 8, 7). Che cosa rappresentino queste spine, poi, lo spiega chiaramente lo stesso Gesù agli apostoli: esse sono «le preoccupazioni del mondo, l’inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie» che impediscono al seme, cioè alla Parola, di svilupparsi e dare frutto (Matteo 13, 22; Marco 4, 18; Luca 8, 14). E, sempre Gesù, esorta a stare in guardia e riconoscere i veri profeti dai falsi, i buoni discepoli dai cattivi. In che modo? Dai loro frutti, proprio come avviene con le piante: «Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?» (Matteo 7, 16; Luca 6,44).
Lo stesso Paolo, del resto, nella seconda lettera ai Corinzi, confessa: «Mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia» (12, 7). Da sempre gli esegeti hanno cercato di scoprire cosa sia questa “spina” che tormenta Paolo, che potrebbe alludere a un problema fisico, o a un handicap che lo mette a disagio, o ancora a un tratto caratteriale sgradevole che l’apostolo non riesce a superare. Altri commentatori biblici, invece, vedono in quella spina un problema morale e spirituale: Paolo, cioè, malgrado la sua fede nel Risorto, nonostante le sue grandi esperienze mistiche e i suoi successi apostolici, ricadrebbe frequentemente in un certo peccato, in una determinata tentazione..
Nell’esperienza di san Paolo, in ogni caso, potrebbe specchiarsi gran parte degli uomini. Perché quella spina, che la si voglia intendere come peccato, o come tentazione, o come crisi spirituale, simboleggia una situazione di disagio, di sofferenza, di inquietudine che ben rappresenta la condizione del credente, impedito a percorrere speditamente e con sicurezza il suo cammino di fede.
Ecco, proprio questa – cammino – è un’altra parola chiave del nostro tema. Una spina o una scheggia che si infila nella carne non è cosa grave. E tuttavia con una spina nel piede davvero non si può andare lontano, come ben sa chi ha provato una simile disavventura! Bisogna fermarsi, sedersi, e cercare di togliere quell’impiccio: proprio come il nostro Spinario medievale. Solo così si potrà poi riprendere il cammino…
Non è dunque un caso che diverse di queste particolari rappresentazioni si trovino proprio in chiese situate lungo le grandi vie di pellegrinaggio, per lo più collocate in posizione di grande evidenza, sulla facciata all’esterno o su capitelli all’interno. Per i pellegrini che si spostano essenzialmente a piedi per lunghi tratti, spesso per sentieri in mezzo ai boschi, zoppicare per una spina o per un altro simile accidente doveva essere un’esperienza ben nota, condivisa e ripetuta. Gli Spinari scolpiti nei santuari romanici, tappe del Cammino di Santiago o della Via Romea, potevano avere così un valore apotropaico per scongiurare tali intoppi, o semplicemente raffigurare con gusto realistico queste fastidiose disavventure.
Ma soprattutto, per quanto abbiamo detto finora, queste immagini dovevano avere un evidente valore simbolico: un richiamo alla condizione stessa del pellegrino, che per compiere fino in fondo il suo cammino, spirituale prima ancora che materiale, deve liberarsi di quelle “spine” che rallentano la sua marcia e che simboleggiano i peccati, o i beni superflui, o i pregiudizi… Perfino l’eresia, probabilmente, che insinua il dubbio e l’errore nella fede, impedendo al cristiano di proseguire lungo la retta via.
Se poi volessimo tornare alle pagine bibliche, troveremmo immediatamente tutta una serie di riferimenti che si ricollegano proprio alle immagini del cammino e delle spine. «Spine e tranelli – ammonisce ad esempio il libro dei Proverbi – sono sulla via del perverso; chi ha cura di se stesso sta lontano» (22, 5). E poco prima, nel medesimo contesto, viene spiegato che «la via del pigro è come una siepe di spine», mentre «la strada degli uomini retti è una strada appianata» (15,19).
Davvero, allora, gli artisti e i teologi medievali, sulla base di tutte queste “informazioni”, potevano ispirarsi al modello antico dell’uomo che si cava una spina dal piede per rivestirlo di nuovi significati cristiani. Come sull’ambone della basilica di Sant’Ambrogio, appunto, luogo privilegiato della proclamzione della Parola di Dio.