Il parroco aveva insistito. Bonariamente, cortesemente, ma aveva insistito. «Venga, caro Frigerio, venga a vedere la nostra cappella con gli affreschi di Vanni Rossi. Non se ne pentirà…». E il giornalista aveva promesso che sì, prima o poi, a Dio piacendo, un salto a quella chiesa moderna nella periferia orientale di Milano l’avrebbe anche fatto, ma intanto preferiva sostare all’ombra di una pieve romanica sull’Adda, aggirarsi tra le pietre di un borgo medievale nelle valli bergamasche, cercare le tracce, labili e forti, dell’apprendistato lombardo del Caravaggio…
Finalmente il nostro giornalista si è deciso, ma l’incontro non si rivela dei più travolgenti. Una basilica, quella dei Santi Nereo e Achilleo, eretta negli anni Trenta, quando la prosopopea del Ventennio non risparmiava, evidentemente, neppure gli edifici di culto. Troppo imponente, troppo vasta, troppo retorica. Adatta più a dei comizi, in apparenza, che a delle celebrazioni liturgiche. Eppure don Gianluigi mantiene quel sorriso sornione di chi ha un asso nella manica. O meglio, dietro una porta. La porta della Cappella della Madonna di Fatima, appunto.
Lo scettico cronista rimane a bocca aperta, il naso per aria, la macchina fotografica in una mano, il cavalletto nell’altra. Davanti ai suoi occhi, in un’aula, questa sì, di misurata grandezza, si stende un ciclo pittorico straordinario, fitto di personaggi, irto di scene. Ovunque, sulle pareti a mezza altezza come sulla volta, una folla di visi, di mani, di sguardi. Come in preda a un sacrosanto horror vacui, l’artista pare aver riempito di colore ogni centimentro quadrato di intonaco, usando cromie ora accese, ora sfumate, giocando sui toni caldi e su quelli freddi per suggerire situazioni, sentimenti e stati d’animo. Riuscendovi mirabilmente.
«Bello, vero?», sussurra il parroco dei Santi Nereo e Achilleo dopo aver lasciato al visitatore qualche momento di estatica contemplazione. «Pensi che tutto questo venne realizzato alla fine dell’ultima guerra mondiale, come una sorta di ex voto voluto dalla gente di questo quartiere…». E come a sottolineare le parole del sacerdote, ecco che un fungo atomico, quello di Hiroshima, si leva là in un angolo, monumento alla follia distruttiva degli uomini, antro ultimo dell’inferno, significativamente posizionato accanto al Golgota quale rinnovata crocifissione di Cristo, e tuttavia anch’esso riscattato dalla potenza del Risorto, non a caso raffigurato proprio al di sopra, dove con colori dolcissimi Colui che è vita vince la morte.
Perchè è la storia della Salvezza, quella che si dipana sulla pareti di questa cappella, che ormai ci si svela come una “Sistina” ambrosiana. Una preghiera dipinta, un rosario sgranato per immagini, nei suoi Misteri gaudiosi, dolorosi, gloriosi. Il prevosto ce li indica a dito, dalla Visitazione alla Natività, dalla Presentazione al Tempio a Gesù tra i dottori, dal Getsemani al Calvario; e ancora la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste… Ovunque il fedele si volti sente su di sè lo sguardo di Cristo. E quello di Maria. Ed è come un abbraccio, che scalda, che rincuora.
Questa, del resto, è stata la prima cappella a essere dedicata alla Madonna di Fatima a Milano. La figura della Vergine di bianco vestita che appare ai tre pastorelli campeggia sulla pala dell’altare, mentre all’ingresso, nell’atrio, sono illustrati i prodigi di quelle apparizioni, la fede dell’umile gente accorsa, le angeliche presenze, e quel sole, che come raccontarono i testimoni, brillò di tutti i colori…
Un incanto. E, per una volta, con il crisma della contemporaneità. Artefice di tutto ciò è stato Vanni Rossi, pittore tra i maggiori del Novecento italiano, eppure non celebrato, non riconosciuto come avrebbe meritato e come merita. Bergamasco d’origine, era nato a Ponte San Pietro nel 1894 (paese che ancor oggi ne custodisce la memoria), Giovanni, detto Vanni, dopo gli studi all’Accademia Carrara fu chiamato poco più che ventenne a collaborare con la Scuola d’arte cristiana Beato Angelico, fondata da monsignor Polvara. L’arte sacra, del resto, fu tutta la sua vita, dare figura alle Scritture e alla fede la sua missione. Stimato da papa Giovanni XXIII (l’artista ebbe studio anche a Sotto il Monte), operoso e infaticabile, affrescò chiese e santuari fra la diocesi natia di Bergamo e quella d’elezione di Milano, impegnandosi in imprese grandiose, a volte stremanti. Ma, come diceva di lui l’amico e maestro Aldo Carpi, «quando è sulle impalcature, Vanni non conosce fatica nè tempo. E per amore della pittura non dà peso alla contrarietà del suo vivere…».
Le sue figure, come qui, nella cappella milanese della Madonna di Fatima, sono possenti, vigorose, eredi di una classicità antica, come animate da una voce profetica. E tuttavia vere, reali, concrete fino al ritratto, come ci dimostrano, in un ampio pannello, i volti riconoscibili del cardinal Schuster, di papa Pio XII, del primo parroco Augustoni, e di sè stesso, umile frescante consapevole del proprio talento… Immagini solide, a rivendicare il mistero del Verbo Incarnato, e tuttavia eteree, luminose, come in quella capanna di Betlemme, dove una luce è venuta a illuminare il mondo, squarciando le tenebre.
«Valeva la pena venire, no?». Senza dubbio, don Gialuigi, senza dubbio.