Ancor oggi capita di vederle, le candide spose, accompagnate dai novelli mariti, che appena terminata la cerimonia si avvicinano alla cappella della navata sinistra, nella chiesa del Casoretto, invocando grazia e benedizione per quella loro nuova famiglia che nasce, davanti alla venerata immagine di Maria, madre e sposa, anch’essa tutta di bianco vestita…
Siamo nella periferia nord-est di Milano, oltre Piazzale Loreto, dove le case e i palazzi sorgono fitti, in una ragnatela di strade. Ma fino agli inizi del secolo scorso qui era aperta campagna, e l’abbazia di Santa Maria Bianca della Misericordia sorgeva in quieta solitudine, nel salmodiare dei canonici agostiniani. Un complesso monumentale di grande interesse, più volte rimaneggiato nei secoli, ma che ancora conserva splendidi tesori d’arte, emozionanti testimonianze di fede.
Come l’antico affresco che dà il nome alla parrocchia stessa, appunto. Un dipinto apparentemente semplice, eppur prezioso: avvolto dal fascino dei simboli, sintesi di una luminosa teologia mariana. Ancor più suggestivo oggi, al nostro sguardo, per quel riferimento alla Misericordia che ne fa una splendida icona del Giubileo che stiamo vivendo.
La Vergine, in piedi, ma con il ginocchio leggermente flesso (come nell’atto di un riverente inchino), contempla e adora il frutto del suo ventre, Gesù, che a sua volta volge a lei lo sguardo, benedicendo con la manina destra alzata. Il Bambino è nudo, a ricordare la povertà della sua nascita, ma soprattutto a sottolineare il mistero straordinario dell’incarnazione, di Dio che si fa uomo per amore.
Così il Divino infante giace direttamente sull’erba, in un giardino alto e rigoglioso, fiorito di rose e di soavi profumi, in un’immagine che è già paradisiaca. Di quell’Eden da cui gli uomini erano stati cacciati a causa della colpa primigenia, e nel quale ora siamo ricondotti, proprio grazie a lui, il nuovo e ultimo Adamo, secondo la nota definizione paolina. Un cartiglio, infatti, rifatto probabilmente in epoca secentesca (forse ricalcando la scritta originale), stendendosi dalla Madre al Figlio annuncia: «Ecce Maria genuit nobis Salvatorem».
Dolce e gentile è il volto di Maria, incorniciato dai biondi capelli, che lunghi e sciolti scendono fin oltre le spalle. Lo sguardo pensoso, eppur sereno. Le labbra socchiuse in un intimo sorriso. Le gote appena arrossate, di virginale pudore. Così come la sua veste è interamente bianca, orlata di ricami d’oro splendente, a indicarne innanzi tutto la purezza e l’immacolata bellezza. E china docilmente il capo, Maria, incrociando le mani sul petto, in quel gesto di umile, consapevole accettazione del disegno divino che già aveva espresso nel momento dell’annuncio: <Eccomi, sono la serva del Signore>.
I caratteri stilistici dell’opera la assegnano alla metà del Quattrocento, in un’epoca cioè di grande fermento per il cenobio del Casoretto, nato agli inizi del secolo e presto in piena espansione per la vita esemplare dei suoi religiosi e la generosa disponibilità di tanti devoti. L’immagine, affrescata già nel primo edificio eretto dagli agostiniani lateranensi, fu più volte <spostata> all’interno della chiesa via via ampliata, ma sempre in posizione di grande rilievo. Lo stesso san Carlo Borromeo, come tramandano le cronache, sovente si recava quassù fermandosi in preghiera proprio davanti alla «Madonna Bianca».
Per quanto riguarda l’autore del dipinto, invece, a lungo si è parlato di attribuzioni poco probabili, come il Bergognone o il Pisanello, ad esempio, che avevano comunque la loro motivazione nell’alta qualità pittorica dell’opera. Più recentemente ci si è resi conto che questo stesso soggetto ritorna in un due tavole assegnate alla mano di Giovanni Ambrogio Bevilacqua detto Liberale, quasi certamente artefice del bellissimo trittico con il Cristo Risorto ancora oggi al Casoretto. Ma il Bevilacqua avrebbe semplicemente “replicato” l’immagine che aveva visto in questa chiesa, e non ne sarebbe quindi l’“inventore”.
Oggi gli studiosi sono più propensi a cercare l’autore della nostra Adorazione nella cerchia degli Zavattari, eclettica famiglia di pittori che aveva bottega a Milano e che tra il 1441 e il 1446 “firma” lo straordinario ciclo della Cappella di Teodolinda nel Duomo di Monza, trionfo del tardo gotico lombardo. La linea delicata dei volti, il gusto per il dettaglio prezioso, l’eleganza delle figure monzesi sono tutti elementi, infatti, che ritornano con ugual segno proprio nel dipinto dell’abbazia del Casoretto.
Un’Adorazione, certo, ma iconograficamente ispirata in particolar modo proprio alle visioni di una mistica del XIV secolo, santa Brigida di Svezia. Mentre quel “giardino chiuso” in cui si svolge la scena, e che abbiamo già citato come l’Eden, può essere ora letto anche come simbolo della verginità stessa di Maria, secondo la diffusa interpretazione dei Padri della Chiesa del Cantico dei Cantici (4, 12: «Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fonte sigillata»).
Verginità evocata in questo dipinto anche dal candore della sua veste, appunto. Lei, come ha scritto san Bernardo di Chiaravalle, «la beata Vergine, che a tutti ha dischiuso il seno della sua misericordia affinché tutti possano attingere alla sua pienezza».