È la globalizzazione, bellezza. Se andiamo a produrre scarpe in Romania invece che nelle Marche o nel Salento – e da molti anni – non possiamo poi stupirci che anche al cibo tocchi la stessa sorte. Se la salsa di pomodoro cinese costa la metà della nostra, ci sarà sicuramente qualcuno che sarà interessato ad acquistarla e a proporla a prezzi concorrenziali nel nostro mercato.
Si dirà: ma la qualità? Ma il made in Italy?
Distinguiamo. Il made in Italy è o dovrebbe essere il risultato finale, la nostra abilità di presentare questo o quel prodotto. Uno splendido armadio brianzolo rimarrà tale anche se la materia prima arriva dall’Austria o dalla Finlandia. Nessuno al mondo contesta che un’Audi sia un’auto made in Germany, anche se la componentistica arriva da mezzo mondo, soprattutto dall’Italia.
Quindi non si vede il problema se una pasta abbia grano straniero tra gli ingredienti: primo, perché il grano duro italiano è insufficiente alla bisogna; poi perché ci sono farine straniere (canadesi, ucraine) di qualità sopraffina, usate dai migliori produttori. Se questa logica fosse ribaltata addosso a noi, perché i tedeschi dovrebbero acquistare le nostre fragole, o chiunque altro i nostri pomodorini Pachino?
Può esserci un grandioso made in Italy nel prosciutto crudo, anche se la coscia arriva dall’estero. Dipende dalla sua qualità. Se questa è bassa, anche il prodotto finale sarà mediocre. E nessun marchio cambierà la cosa.
Forse il problema è un altro. Quanti consumatori guardano alla qualità di quel che acquistano, e quanti al prezzo e basta? Quanti, davanti ad un carrè di agnello nostrano e ad uno di provenienza bulgara che costa la metà, scelgono il primo? A quanti interessa la provenienza di quella mozzarella che è italianissima nel nome ma tedeschissima nella produzione? È il mercato, bellezza. E di brutto c’è che la crisi economica ha diminuito i potenziali acquirenti di raffinati prodotti Dop o Igp: basta che costi poco è il motto dei più.
Allora il punto è un altro. Non potendo fare battaglie perse in partenza (che facciamo: introduciamo i dazi? E ciò gioverebbe ad un’Italia che vive sulle esportazioni?), e sperando che l’educazione civica degli italiani migliori anche grazie a decisioni legislative che chiariscano sempre di più le etichette dei prodotti in vendita, la vera questione sta nella salubrità di ciò che il mercato offre. E questo vale per il made in Italy così come per il made in China o in Usa.
Questa è la vera frontiera che deve accomunare tutti: produttori, commercianti, consumatori. Anche il prodotto di basso prezzo deve essere comunque tutelato e controllato, nonostante una qualità inferiore. Le cronache invece raccontano di continue frodi alimentari che rendono molto sia in termini economici a chi le crea, sia nella sostanziale impunità nel caso si venga scoperti.
Oggi chi viene beccato a commerciare pesce scongelato a Pasqua, a mescolare mieli pieni di chimica, a piazzare funghi cresciuti rigogliosamente dalle parti di Chernobyl o a creare oli extravergini con oli di semi colorati alla clorofilla, se la cava con un buffetto o poco più. Cosa volete che sia mangiare un prodotto scaduto al tempo dei Borboni, e ri-etichettato come freschissimo?
Per noi consumatori, vuol dire moltissimo. E si sappia che la carne, la frutta, i branzini e i formaggi made in Italy sono tra i più controllati e salubri del mondo. Quindi a volte varrebbe la pena anche spendere qualcosina in più, non sacrificando tutto sull’altare del prezzo, dietro il quale spesso non si nasconde solo una qualità inferiore. Perché la salute, un prezzo non ce l’ha.