“Ribelli”: così i fascisti della Repubblica di Salò, insieme agli occupanti nazisti, chiamavano coloro che si opponevano al loro regime. Nei loro dispacci questo era un epiteto infamante, come quello di “banditi” che appendevano al collo dei partigiani giustiziati sommariamente per le strade o nei campi. Eppure sempre più italiani sentivano il dovere di ribellarsi, di fronte a questa insostenibile situazione di violenza e di oppressione. Uomini e donne che vollero diventare “ribelli”, a costo di correre rischi gravissimi e di pagare in prima persona, anche con la vita: lottando con la forza delle idee e degli ideali, prima ancora che con le armi.
Il giornale Il ribelle, cattolico e apartitico, nacque così, nei primi mesi del 1944. Dopo che la caduta di Mussolini si era dimostrata un’effimera illusione. Dopo che l’Armistizio dell’8 settembre aveva consegnato l’Italia in mano ai tedeschi, portando all’internamento nei lager di centinaia di migliaia di militari. Dopo che ogni giorno intere famiglie di ebrei erano deportate nei campi di sterminio, mentre gli oppositori di qualsiasi tipo venivano incarcerati, torturati, uccisi. Com’era successo a due resistenti bresciani cresciuti in oratorio, Astolfo Lunardi ed Ermanno Margheriti, rei di aver stampato e diffuso un foglio – Brescia libera – che invitava alla ribellione delle coscienze contro la tirannia.
Proprio in memoria del loro sacrificio, altri cattolici della Resistenza decisero di dare vita a Il ribelle, che mantenne sempre la dicitura “Brescia” come luogo di provenienza, anche se venne stampato tra Milano e Lecco. Ne furono pubblicati 25 numeri, più un fascicolo commemorativo il 25 aprile 1946, nel primo anniversario della Liberazione. Sotto la testata c’era scritto: «Esce come e quando può», che era la semplice verità, perché il giornale era clandestino e ogni numero poteva essere l’ultimo, redatto tra mille difficoltà e continui pericoli.
L’idea era venuta a Teresio Olivelli, oggi proclamato beato. Tenente degli alpini, superstite della tragica ritirata di Russia, fuggito dalle mani dei tedeschi, Olivelli si era unito al gruppo partigiano delle “Fiamme verdi”, di ispirazione cattolica. A Milano aveva conosciuto Carlo Bianchi, antifascista ingegnere trentenne, presidente della Fuci e fondatore della “Carità dell’arcivescovo”. Con loro vi erano anche Claudio Sartori (che del giornale fu caporedattore e poi direttore), Enzo e Rolando Petrini. Per la stampa del giornale ci si rivolse a un tipografo di grande esperienza e di provata fiducia, Franco Rovida, che proveniva dalle fila dell’avanguardia cattolica.
Il primo numero de Il ribelle fu stampato in quindicimila copie: una tiratura davvero alta per un foglio clandestino, che verrà mantenuta anche nelle successive uscite. La risonanza, del resto, fu enorme, con una diffusione concentrata tra Milano e Brescia, ma che in realtà raggiungeva tutte le città lombarde e l’intera Italia settentrionale, arrivando anche a Bologna e a Roma e valicando perfino le Alpi. La reazione dei fascisti, di conseguenza, fu rabbiosa e durissima.
Caduti in trappola in seguito a una delazione, Olivelli, Bianchi, Petrini e Rovida furono arrestati, seviziati e deportati. Bianchi venne fucilato a Fossoli il 12 luglio 1944, gli altri morirono di stenti e percosse nei lager nazisti nei mesi successivi. Ma quando tutto ormai sembrava finito e perduto, nuovi “ribelli” come don Giovanni Barbareschi ne presero il testimone, continuando la pubblicazione del giornale con l’aiuto di amici coraggiosi: le donne, in particolare, di tutte le età, furono le propagandiste più spericolate ed entusiaste.
Ancora oggi possiamo leggere i numeri de Il ribelle, grazie alla riproduzione anastatica che ne è stata fatta da In dialogo. E sfogliando quelle pagine ci si imbatte in una mole impressionante di informazioni, soprattutto riguardo alle storie “minori” degli anni della Resistenza: volti di eroi e di vittime, ma anche di carnefici e di aguzzini; episodi dimenticati, a volte terribili per le sofferenze inflitte, ma in altri casi esaltanti per la salvezza portata.
E tuttavia non è la parte della cronaca quella che appare più importante di questo foglio clandestino, che, anche attraverso undici quaderni tematici, si prefiggeva di discutere e analizzare i principi cardine di quella nuova società che i “ribelli” sognavano di ricostruire dopo la guerra.
«Eravamo un piccolo gruppo e volevamo che il nostro giornale fosse una palestra per essere coscienti della situazione presente e aiutare la crescita di ogni persona – ha spiegato, infatti, don Barbareschi -. Eravamo innamorati della libertà, il volto attraverso il quale Dio aveva parlato a ciascuno di noi. Eravamo convinti che quando un uomo o un gruppo o un popolo intero cerca la sua libertà politica, psicologica, personale, religiosa… che lo sappia o no, quella persona, quel popolo cerca Dio».
Per questo Teresio Olivelli concludeva la sua celebre preghiera, pubblicata sul terzo numero, con questa invocazione: «Dio della pace e degli eserciti, Signore, che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi, ribelli per amore».