Speriamo che almeno sia rimasto soddisfatto, il nobile Gaetano Caccia, del suo baratto con don Carlo Trivulzio. L’uno, il Caccia, cedette infatti nel 1750 un codice di Leonardo da Vinci – finito chissà come, chissà quando, in suo possesso – all’altro, il Trivulzio, in cambio di un orologio d’argento, di un quinario d’oro e di «qualche altra cosa», che l’abate milanese neppure più ricordava, come ebbe ad annotare, tanto dovette parergli insignificante rispetto al tesoro ottenuto…
Anche immaginandolo baloccarsi divertito con il suo nuovo orologio “a ripetizione”, il povero Gaetano Caccia agli occhi della storia fa dunque la figura del grullo, di quello che è pronto a dar via la progenitura per un piatto di lenticchie. Meglio per noi, infine. Sì, perché quelle pagine leonardesche da allora sono rimaste a Milano, trasferitesi appena dalla patrizia dimora Trivulzio all’omonima, importantissima biblioteca, grazie all’acquisto che la municipalità fece settant’anni or sono. E che fa del capoluogo lombardo, già detentore dell’immane Codice Atlantico all’Ambrosiana, la vera capitale mondiale delle carte leonardesche.
La notizia di questi giorni è che il Codice Trivulziano sarà restaurato a cura di Bank of America Merrill Lynch Art Conservation Project, con un intervento che prevede anche la realizzazione di una copia digitale del manoscritto: riproduzione virtuale che, grazie a un software innovativo, faciliterà la ricerca accademica e renderà il codice più accessibile anche al grande al pubblico.
Del resto di questioni ancora da comprendere, quando si parla di Leonardo e dei suoi scritti, ve ne sono ancora molte. Come anche negli altri codici leonardeschi, infatti, in questo della Trivulziana vi sono idee sparse, intuizioni buttate giù di getto, osservazioni ripetute e corrette, analisi e prove, commenti, esercizi letterari e scientifici, in una sorta di diario quotidiano che riflette l’attività magmatica e geniale del suo estensore. Gli anni, osservano gli studiosi, sono quelli iniziali del suo primo soggiorno milanese, attorno cioè al 1490, quando Leonardo era salito da Firenze per mettersi al servizio di Ludovico il Moro, come architetto, come inventore di armamentari difensivi e offensivi, come artista, ma, soprattutto, così leggiamo in una sua famosa lettera al duca di Milano, come creatore di eventi e feste, nonché virtuoso di una particolare cetra da lui stesso inventata…
Gli argomenti, che Leonardo verga fitto fitto, nella sua caratteristica scrittura “speculare” (da destra a sinistra), sono qui i più diversi. Colpiscono, innanzitutto, gli studi per il tiburio del Duomo, grandiosa operazione che la Veneranda Fabbrica, a un secolo dall’apertura del cantiere, s’apprestava a compiere, cercando di coinvolgere i più eminenti architetti d’Europa. Il Da Vinci, lo sappiamo, aveva allora quotidianamente sotto gli occhi la nascente cattedrale, avendo adattato a personale laboratorio parte della Corte Vecchia, cioè l’attuale Palazzo Reale. E qualche idea per quel tiburio doveva averla davvero, a giudicare dai diversi schizzi e dagli accostamenti con la cupola fiorentina del Brunnelleschi che ritroviamo nelle carte trivulzie. Di certo aveva ben compreso il problema: “Al malato Domo, occorre un medico architetto”, osserva infatti.
Ma non mancano anche progetti di edilizia militare, di fortificazioni e di ordigni bellici (come un’enorme balestra o una sorta di imbarcazione d’assalto per le artiglierie), dove in realtà non si sa se apprezzarne più le invenzioni tecniche o la sbrigliata fantasia. Anche perché, a quanto sembra, nulla di tutto ciò venne mai realizzato vivente l’autore… E poi osservazioni naturalistiche, considerazioni scientifiche (in specie sull’ottica), curiose impressioni di volti e figure, a volte caricaturali, o più probabilmente di esasperato realismo.
Ha sempre impressionato, del Codice Trivulzio, il lungo elenco di vocaboli che riempiono varie pagine. Le bozze di un dizionario scientifico, osservano alcuni. Ma più probabilmente, una sorta di memorandum personale di termini letti e incontrati, come per fissarseli in mente e poi riutilizzarli alla bisogna. Possibile? Possibilissimo. Perché Leonardo era un genio, ma come lui stesso si definiva, era anche un homo sanza lettere, che conosceva poco il latino e per nulla il greco, e che soffriva probabilmente di questa limitazione lessicale, di questa povera formazione umanistica, con cui spesso, immaginiamo, dovette trovarsi a combattere, soprattutto confrontandosi con i dottissimi e gli eruditissimi del suo tempo.