Ha ritratto il Mistero, Joel Meyerowitz. Come a Provincetown, in Massachusetts, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Immagini di un’assenza: quella dell’uomo, suggerita soltanto nella quotidianità dei suoi manufatti (le case, le automobili, le insegne pubblicitarie, i lampioni…). Immagini di una presenza: quella di Dio, evocata nel silenzio immobile di un istante lungo come l’eternità. Inquadrature spesso riempite di muri che limitano l’orizzonte, rifugi di intimità che diventano prigioni. Eppure dove uno squarcio si apre sull’infinito, con uno sguardo di libertà che è via di salvezza. Perchè «Io sono la porta», dice il Signore. E si esce così a riveder le stelle. Come Dante fuori dall’inferno, come Giona rigettato dal pesce.
È una mostra eccezionale, quella oggi proposta dalla Galleria San Fedele a Milano, intitolata Sightseeing. Un sentimento della vita e curata da Giovanni Chiaramonte (fotografo egli stesso, impegnato anche nel nuovo Evangeliario ambrosiano). Trenta scatti di uno dei maestri della fotografia del nostro tempo, che riassumono la ricerca di una vita intera. Quella di Meyerowitz, appunto, statunitense di New York, classe 1938, erede dei grandi street photographer nella tradizione di Henri Cartier-Bresson e Paul Strand. Immagini, le sue, che hanno cambiato il senso stesso del vedere fotograficamente, influenzando anche registi come Wim Wenders (del quale, infatti, il San Fedele propone in contemporanea alcune delle pellicole più significative).
Meyerowitz in persona ha inaugurato questa rassegna milanese. Tenendo anche una lectio magistralis affollatissima, dove ha raccontato la sua esperienza di cercatore di immagini. Iniziata oltre cinquant’anni fa, quasi per caso, come una rivelazione, come per un bisogno profondo di capire, se stesso prima ancora di coloro che il suo obiettivo inquadra.
La strada, per il giovane Joel, è all’inizio lo scenario naturale dove esercitare il “dono della fotografia”, come umilmente riconosce. Fermo in mezzo alla folla delle metropoli, a lasciarsi lambire da un’umanità affaccendata, nei gorghi di una collettiva solitudine. Ma più spesso in cammino, attraverso la provincia americana, o ripercorrendo le vie del vecchio continente, come in un laico pellegrinaggio, senza meta apparente, aperto all’incontro, alla scoperta, all’intuizione. Kerouac insegna, certo, ma è un bisogno di movimento, mentale più che fisico, che agita un’intera generazione.
In Europa arriva anche alla consapevolezza del colore. Non era così scontato. In anni in cui i grandi fotografi prediligono ancora il bianco e nero (per drammaticità espressiva, per immediatezza comunicativa, per affidabilità tecnica), Meyerowitz è infatti uno dei primi artisti dello scatto che sceglie di esprimersi cromaticamente: non per essere all’avanguardia, che poco gli importa, ma perché, dice, «avevo visto nel colore del 35 mm un certo tipo di qualità descrittiva che il bianco e nero non aveva». Più informazioni, insomma. E per rappresentare la variegata complessità del mondo circostante, ogni dato in più è un passo ulteriore verso la conoscenza.
L’uso del colore determina per il fotografo di New York anche un radicale cambiamento delle modalità di ripresa. Non più piccoli apparecchi maneggevoli e pellicole ad alta sensibilità per cogliere l’attimo, ma banchi ottici pesanti e ingombranti, dove l’immagine non è “catturata”, ma si “forma” in una dilatazione temporale che richiede attesa e riflessione. E quindi non più città, ma campagne (quella Toscana, soprattutto). Non più agglomerati urbani, ma spiagge silenti. Nella foto della zolla arata, il mistero della fecondità. Nei raggi di sole fra gli ulivi, il riflesso di un oltre. Nel faro solitario, la luce che sorge a illuminare le genti. Lo sguardo si fa interiore, il qui e ora dell’umano diventa frammento di vita eterna.
Anche nella tragedia. Quando, dopo l’11 settembre 2001, le Twin Towers che aveva inquadrato in tante sue immagini non ci sono più, dilaniate in nubi di cemento e sangue, Meyerowitz ricostruisce con la sua macchina fotografica frammenti di vita, particelle di esistenza, monumenti alla memoria di un dolore condiviso. Perché il suo sguardo sa, ormai, che nulla andrà perduto. Neppure un capello del nostro capo.