Una bella storia dalla periferia della metropoli. Che parla di dipinti ritrovati, restaurati e oggi restituiti alla comunità parrocchiale per la quale erano stati realizzati, quasi un secolo fa. Opere per le quali non si può forse spendere l’abusato termine di «capolavori», ma che costituiscono comunque un’importante testimonianza riguardo all’arte sacra dell’inizio del ventesimo secolo, e che ci offrono interessanti informazioni su quel periodo storico, non solo per l’ambito religioso, ma anche per il contesto sociale.
Siamo a Precotto, popoloso quartiere a nord-est di Milano, ma un tempo comune autonomo, come tanti nella cintura della città, con la sua storia e le sue tradizioni. La chiesa attuale, dedicata a San Michele Arcangelo e di antica fondazione, fu ricostruita all’indomani dell’Unità d’Italia, quando lo sviluppo industriale della zona favorì un forte incremento della popolazione, che da contadina divenne rapidamente operaia: il beato cardinal Ferrari la consacrò solennemente il 6 ottobre 1901, 120 anni fa.
Anche in vista di questo anniversario, il prevosto don Ambrogio Pigliafreddi ha coinvolto i suoi parrocchiani nel progetto di «recupero» di quelle tele che da oltre mezzo secolo, cioè in seguito ai rifacimenti degli anni Sessanta, giacevano «dimenticate» nei corridoi e nei depositi della canonica. Si tratta di una decina di quadri di grandi dimensioni, che dopo essere stati ripuliti e restaurati da mani esperte sono stati oggi ricollocati nelle cappelle e sulle pareti dove erano in origine.
La maggior parte di questi dipinti porta la firma di Luigi Morgari. Nome oggi poco noto, questo pittore fu invece assai rinomato al suo tempo, lavorando in decine e decine di chiese, soprattutto in Italia settentrionale: molte anche quelle da lui decorate in terra ambrosiana, da Milano a Lecco, dalla Brianza al Varesotto.
Cresciuto in una famiglia di artisti, Morgari era nato a Torino nel 1857, formandosi all’Accademia Albertina e facendosi subito apprezzare come ritrattista. Proprio l’affermazione in concorsi d’arte sacra, tuttavia, lo fece conoscere alla committenza ecclesiastica: le sue immagini semplici, di facile comprensione, vivaci nella colorazione e connotate da una certa eleganza formale risultavano infatti rassicuranti per quei prelati che non gradivano le «astrusità» dell’arte moderna.
Una pittura, la sua, che oggi viene per lo più definita «oleografica», in senso dispregiativo, perché ricorda quei santini e quelle immaginette che paiono la summa delle «buone cose di pessimo gusto» (per citare il poeta Gozzano), ma che all’epoca ebbe grande successo, e perfino ammirazione, proprio per la sua «riproducibilità», con immagini che divennero famigliari a milioni di fedeli, in Italia e nel mondo: una sorta di «pop art religiosa», insomma, di massa.
Per la prepositurale di Precotto Luigi Morgari lavorò nell’ultimo scorcio della sua carriera, dalla fine degli anni Venti al 1932, producendo diverse opere su commissione dell’allora parroco, don Vittorio Pampuri. Per il battistero dipinse la «Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre», a memoria del peccato originale e del lavacro che il battesimo opera su ogni cristiano: una tela che, iconograficamente, sembra derivare dall’analoga stampa di Gustave Doré, ma dove, più che la disobbedienza e il castigo, vengono qui mostrati lo struggente pentimento dei Progenitori e la divina misericordia subito elargita al genere umano. Allo stesso ambiente fu destinato anche «Il battesimo di sant’Agostino», per mano di sant’Ambrogio e alla presenza della madre del futuro vescovo di Ippona, santa Monica: episodio di straordinario significato per la Chiesa non solo milanese, ma universale.
Per la cappella di fronte, quella che accoglie la statua del patrono san Michele, Morgari dipinse altre due tele: la «Visione di santa Giovanna d’Arco», dove l’arcangelo si libra al centro della scena, accompagnato da santa Caterina d’Alessandria e santa Margherita (ben riuscita è la figura della giovinetta, che punta il suo sguardo su di noi, come a voler coinvolgerci nell’evento); e la «Liberazione di san Pietro dal carcere», che rielabora le molte versioni note di questo soggetto, dal medioevo al barocco, passando per la sublime interpretazione di Raffaello nelle Stanze vaticane.
Nella cappella a fianco troviamo altri due grandi quadri del pittore torinese. Il primo rappresenta la «Comunione degli apostoli», che si può considerare, seppur impropriamente, una «variante» dell’«Ultima cena», con un’iconografia d’origine orientale, più volte ripresa soprattutto nel Quattrocento, a cominciare da Beato Angelico.
Il secondo telero è quello più significativo, a nostro avviso, dal punto di vista storico. Esso, infatti, mostra il pontefice allora regnante, l’ambrosiano Pio XI, che con gesto eloquente invita gli uomini e le donne di tutta la terra ad adorare il Sacro Cuore di Cristo Re: scorgiamo infatti, i nativi d’America, i Berberi, gli Arabi, gli Indiani, esponenti dell’Africa nera e dell’Estremo oriente, e altri ancora. Una dimensione davvero mondiale che, ai fedeli di Precotto, non poteva non ricordare la grande Esposizione missionaria vaticana voluta proprio da papa Ratti per l’anno santo del 1925.