Un’arte fatta per stupire, quella di Giuseppe Arcimboldi (o Arcimboldo, come oggi più correttamente dicono gli studiosi). Ritratti fantastici e figure allegoriche, realizzati accostando in modo virtuosistico fiori, frutti, ortaggi, ma anche gli oggetti più disparati, in una pittura minuziosa e illusionistica, nata dalle invenzioni leonardesche e nutrita dallo spirito manierista, curioso e divertito, del secondo Cinquecento. Un gusto per il grottesco, per l’eccessivo, per il meraviglioso che ebbe successo breve, salvo poi venire riscoperto agli inizi del Novecento come singolare anticipazione di certe espressioni d’avanguardia, irrazionali e surrealistiche…
Proprio l’Arcimboldo da Milano fu chiamato alla corte di Praga, dove divenne il pittore prediletto di principi e imperatori, in particolar modo di Rodolfo II, eclettico e raffinato collezionista, che sappiamo essere stato in contatto epistolare anche con san Carlo Borromeo.
Ma se le teste “fiorite” dell’Arcimboldo sono ormai familiari al grande pubblico, realizzate per lo più proprio durante il suo soggiorno praghese, e utilizzate per la loro modernità anche dal linguaggio pubblicitario, pochi sanno forse che egli lavorò anche per il Duomo di Milano, dove ancor oggi resta testimonianza della sua attività artistica. Si tratta, in particolare, di alcune vetrate che Giuseppe ideò insieme al padre Biagio fra il 1549 e il 1557, agli inizi, cioè, della carriera del nostro pittore.
L’opera più interessante e completa realizzata per la cattedrale dai due Arcimboldi (e qui il plurale pare appropiato!) è la bella, smagliante vetrata con le storie di Santa Caterina d’Alessandria che nobilita il grande finestrone situato sopra la porta laterale del Duomo. Alla santa, in verità, era già stata dedicata una vetrata a metà del XV secolo, ma gli antelli purtroppo erano andati dispersi. La Fabbrica del Duomo, così, facendosi interprete di un diffuso culto popolare, volle rimediare a quella perdita affidando la nuova vetrata a un artista di provata esperienza, Biagio Arcimboldi, appunto, attivo nel cantiere della cattedrale fin dal 1518, che coinvolse quindi anche il figlio Giuseppe.
I disegni degli Arcimboldi vennero assai probabilmente trasposti in vetro da un maestro vetraio come Corrado de Mochis da Colonia, che seppe mantenere le caratteristiche peculiari dei due pittori milanesi, così affini tra loro – e non solo per sangue – ma anche così diversi nel modo di trattare il disegno e il colore. Biagio, infatti, si esprime con una narrativa più morbida, dagli accenti ancora luineschi e dai tratti classici e raffinati, seppur “mitigati” da una tavolozza morbida, quasi “vaporosa”. Giuseppe, invece, si riconosce per un disegno nervoso, sicuramente più originale, che trasmette grande vivacità alle figure, anche attraverso l’uso di colori più intensi. Opere che, se ancora lontane dalle “ghiribizzose” invenzioni della maturità del nostro pittore, rivelano già il suo sottile cerebralismo, la sua propensione per motivi fantastici e fortemente espressivi.
Purtroppo tutti gli altri lavori che Giuseppe Arcimboldo realizzò per il Duomo di Milano in quegli anni di febbrile attività sono andati perduti, e oggi non ne rimane traccia che negli archivi della Fabbrica. Sappiamo, così, che nel 1551 l’artista dipinse una «Vergine con la facciata del Duomo» presso l’adiacente corte ducale, mentre l’anno successivo eseguì un cartone di tema natalizio, un gonfalone con l’effigie di sant’Ambrogio e un’altra immagine mariana.
Nel febbraio del 1554, inoltre, l’Arcimboldo ricevette un pagamento per aver dipinto le ante dell’orfano appena terminato dall’Antegnati. E nei mesi successivi fu impegnato a decorare, sempre per conto della Veneranda Fabbrica, palchi e portici, insegne e apparati scenici in occasioni di solennità religiose: un’abilità, questa, che negli anni seguenti sarà particolarmente apprezzata proprio alla corte imperiale di Praga.