«Voi testimoniate che si può inventare un’Italia e un’Europa diverse, senza fare comizi o manifestazioni, ma lavorando e raccontando ogni giorno ciò che vedete. C’è bisogno di una conversione culturale sui temi dell’accoglienza e di una responsabilità educativa verso gli italiani». È un Auditorium San Fedele gremito, quello che accoglie con un lunghissimo applauso sia la visione del film di Matteo Garrone Io Capitano, sia il regista che, a conclusione della proiezione, dialoga con l’Arcivescovo sull’intensa e drammatica pellicola, a tratti struggente e fiabesca, in altri momenti cruda e violenta. Così come è sempre il destino di chi cerca una vita migliore, attraversando migliaia di chilometri dall’Africa al Mediterraneo nel miraggio di arrivare in Italia. Come vogliono fare i due protagonisti del film, Seydou e Moussa, cugini sedicenni senegalesi, che sognano di diventare rapper famosi in Europa e, del tutto inconsapevoli di ciò che li attende, partono con i pochi soldi guadagnati lavorando di nascosto per mesi.
A introdurre la serata, promossa dall’Ufficio per la Pastorale dei migranti della Diocesi di Milano, da Caritas Ambrosiana, Fondazione Culturale San Fedele, Associazione San Fedele Odv, Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani” e Azione Cattolica Ambrosiana, presenti i responsabili e i rappresentanti di tutte queste realtà, padre Andrea Dall’Asta, responsabile di San Fedele Cinema, che sottolinea il valore di questa produzione, miglior film europeo e miglior regista europeo agli European Film Awards, in lizza – dopo aver già vinto due importanti premi al Festival di Venezia – come candidato italiano per il miglior film internazionale alla 96esima edizione degli Oscar.
La storia
Basato sulla storia vera di Fofana Amara e Mamadou Kouassi (consulenti per la sceneggiatura), la pellicola racconta l’odissea moderna dei due ragazzi e di tanti altri disperati, tra le dune del deserto, gli orrori delle prigioni libiche, il ricatto degli scafisti e i pericoli della traversata del Mediterraneo, ma anche tra molti gesti di umanità e di coraggio, come quello di Seydou, che, non avendo più danaro per giungere sulle nostre coste e salvare il cugino ferito, si mette al timone di una scalcinata “carretta del mare” e riesce a portare oltre 250 migranti, tutti vivi, fino in Sicilia. Da qui il titolo e una prima riflessione dell’Arcivescovo nel dialogo moderato da monsignor Davide Milani, prevosto di Lecco e presidente dell’Ente dello Spettacolo.
Un viaggio nel cuore umano
«Questo film è un viaggio nel cuore dell’uomo, un viaggio pieno di crudeltà spietate e di solidarietà audaci ed eroiche: il film ci parla di come siamo fatti, di come è possibile essere così buoni e così cattivi».
«Le premesse del film nascono dal desiderio di dare voce a chi non ha voce, dall’ascolto e dal dare forma visiva a tutta quella parte di viaggio che di solito non si vede. Anche per me è stata un’esperienza emotiva – ammette Garrone -. Conosciamo tutti i “numeri” del fenomeno, ma noi abbiamo cercato di raccontare delle persone con i loro sogni legittimi come hanno tutti i giovani. Quelli che vivono in un sistema ingiusto che permette a tanti coetanei di andare in vacanza e ad altri di non poter nemmeno entrare in un certo mondo – il nostro – che è luccicante, fa promesse sui social (ormai viviamo tutti nella globalizzazione degli smartphones), ma del quale non sanno nulla. Io sono stato un tramite per cercare di raccontare una storia e ho fatto il viaggio con loro, sia in fase di scrittura della sceneggiatura sia nella ripresa, perché quasi tutti gli attori sono persone che hanno intrapreso davvero questa terribile avventura. È stato un film corale, nato sulla fiducia reciproca: io stesso mi sono trovato spesso a essere il primo spettatore, perché molte cose erano per me nuove e inaspettate».
Rispondendo a don Milani, che osserva come sia difficile, in certe situazioni, vedere l’uomo a immagine di Dio, l’Arcivescovo risponde: «Credo che questo film dica che, invece, c’è sempre l’immagine di Dio nell’uomo e nella donna», come nell’episodio del muratore, compagno di sventura di Seydou che lo “adotta” come un figlio. «Per quanto l’uomo possa essere cattivo e negare la sua verità profonda, questa verità non sparisce. La storia umana è drammatica ed è fatta di luci e ombre, per questo abbiamo bisogno di un rapporto con Dio, perché ciò crea – come si vede nel film – nuova solidarietà e speranza, dicendo la potenza della docilità. Questo mi pare sia il senso della nostra fede».
Parole cui fa eco il regista: «Penso che, al di là delle informazioni che sono la parte meno sorprendente perché sappiamo tutti che in mare si muore, quello che fa la differenza sia il racconto di un’avventura che i giovani comprendono avendo empatia con un protagonista che ha i loro stessi desideri: viaggiare, scoprire, sognare. Ciò che è forte in Seydou è che rimane innocente e puro fino alla fine mantenendo la sua umanità: questo è un messaggio di speranza».
La responsabilità della Chiesa e della comunicazione
Il moderatore chiede ancora quale sia la responsabilità della Chiesa e della comunicazione sulle tragedie della migrazione che si vanno consumando. «Mi fa sempre soffrire l’ottusità del nostro contesto contemporaneo che riduce tutto a numeri, a notizie per suscitare emozioni passeggere. Il numero non dice niente dell’umano, del bene e nel male. Il tema delle migrazioni non può essere affrontato con leggi che riguardano la quantità – scandisce monsignor Delpini -. C’è una grave responsabilità della comunicazione, della politica, della Chiesa. In chiesa è proibito dire la parola extracomunitario, perché nessuno è straniero nella Chiesa e perché la vocazione dell’umanità è a essere una fraternità, fratelli tutti come dice papa Francesco».
Il ringraziamento va alle centinaia di presenti alla proiezione e alle realtà che si occupano di accoglienza, protagonisti di quel «cambiamento culturale» che l’Arcivescovo torna ad auspicare: «Voi che dedicate attenzione, che siete capaci di simpatia, potere raccontare che c’è un modo di difendersi dalla comunicazione utilizzata come seminagione di allarme. Vorrei chiedervi di partire proprio dai racconti che voi custodite, diffondendo una visione della società, del senso dell’essere europei e italiani, che dica qualcosa che smentisca la paura. Mi pare che l’individualismo contemporaneo in Europa e la tendenza a utilizzare le notizie per far paura, siano veramente un dramma, una falsità e un’offesa».
«Il mio film – sottolinea Garrone – non nasce con le premesse di cambiare il mondo, ma vuole sensibilizzare. Per questo sono molto felice che sia visto nelle scuole d’Italia e che ci siano prenotazioni fino a marzo. Dopo la visione al Parlamento europeo vi è stata una lunga standing ovation, si è detto di proporlo nelle scuole d’Europa e c’è il progetto di portarlo anche in Africa, aiutando i giovani di quei Paesi a rendersi conto dei pericoli cui vanno incontro. Il film vuol fare capire che tutti hanno diritto a muoversi, anche se non si scappa dalle guerre o dai cambiamenti climatici: non è uno slogan, è un punto a cui riflettere».
Aiutare i giovani a diventare adulti
Infine, una breve riflessione conclusiva sui giovani: «Quello dei nostri ragazzi è un tema molto ampio perché ci sono coloro non escono di casa, che né studiano né lavorano, e i più di 6000 ambrosiani, ad esempio, che sono andati a Lisbona per la Gmg ad ascoltare il Papa, chi fa le bande per pestarsi e chi fa volontariato. Io scommetto sul lievito. Il futuro sarà quello sognato da coloro che si lasciano attrarre da una vocazione. Possiamo avere fiducia perché ci sono ragazzi che hanno un sogno, come Seydou che vuole credere che nessuno morirà sul barcone. Ma noi, gli adulti, dobbiamo sentirci incaricati di infondere il desiderio di diventare adulti, dobbiamo sentire la responsabilità di piantare speranza là dove i giovani vivono perché si insinui in loro l’idea che la vita meriti di essere vissuta, che il diventare adulti non è un pericolo da cui difendersi, ma una vocazione da realizzare».