Si può essere la “bandiera” della squadra che in Italia conta più tifosi e al tempo stesso godere del rispetto dei supporters delle compagini rivali? Si può incarnare il simbolo del bianconero e contemporaneamente incontrare l’apprezzamento di chi ama altri colori, al di là dei colori? Sì, ma solo se alle doti tecniche si abbinano qualità umane fuori del comune: quelle qualità che, per esempio, ti fanno accettare la serie B anche se sei campione del mondo. Come nel caso di Alessandro Del Piero, che in una lunghissima carriera spesa con le maglie della Juventus e della Nazionale ha assommato gol, vittorie e primati, ma ha conosciuto anche l’ora buia degli infortuni, le contestazioni, perfino il declassamento in panchina. Come il Napoleone di Manzoni, insomma, dall’altare alla polvere e viceversa.
Partire dalla fine
C’è tutto questo in Alessandro Del Piero. L’ultimo atto di un campione infinito, di Alberto Galimberti (Diarkos, 354 pagine, 18 euro). Una monografia dichiaratamente “di parte”, in cui l’autore – giornalista, docente e collaboratore dell’Università Cattolica, che malgrado la giovane età ha all’attivo già due pubblicazioni di tutt’altro genere (la comunicazione politica e i giovani nella Chiesa) – parte dalla consapevolezza che del “Pinturicchio” caro all’avvocato Agnelli si è già detto e scritto tutto. Come aggiungere qualcosa di nuovo e di originale, quindi? Partendo dalla fine, da quel 13 maggio 2012 (sono passati da poco dieci anni) che è stato l’atto finale della carriera di Del Piero nella Juventus e nel calcio che conta. Novanta minuti che hanno rappresentato la summa di una carriera, con gol, assist, un trofeo sollevato e, soprattutto, l’ovazione e il commiato tracimante d’affetto dei tifosi.
Luci e ombre
Parte da lì, Galimberti, per raccontare il Del Piero calciatore e uomo in tutte le sue sfaccettature pubbliche e private, non tralasciando nulla: accanto a un palmarès da record, dunque, ecco le fatiche, le sofferenze, i dolori fisici e psicologici. Che da un lato l’hanno reso più forte, dall’altro l’hanno mostrato nei suoi lati fragili e quindi l’hanno ulteriormente avvicinato al popolo del calcio, abituato a considerare i fuoriclasse del pallone quasi alla stregua di supereroi e piacevolmente sorpreso quando invece ne scopre l’umanità. Lo spiega bene Galimberti quando dice che «la cifra autentica» di un campione è «ispirare le persone», fino a «immaginare la vita, propria e altrui, come migliore».
Questo libro è indubbiamente un omaggio a un calcio che non c’è più, in cui i campioni – Del Piero come Maldini, Totti o Zanetti – abbracciavano una causa e non la tradivano per un ingaggio più ricco. Ma Galimberti si tiene abilmente a distanza dalla retorica della nostalgia per privilegiare il racconto documentato, l’analisi puntuale, la riflessione profonda, pur senza abiurare il coinvolgimento emotivo. «Una lettura che cattura», come scrive Bruno Pizzul nella prefazione. Lo conferma il fatto che – considerata la mole del libro- anche un interista come chi scrive l’abbia letto in tempi ragionevolmente rapidi. E non certo per abbreviare il “supplizio”.