«È più facile continuare ad odiare, perché è una cosa che si conosce: sfiliamoci, cerchiamo di superare questa prova, di cambiare, e la realtà ci parrà diversa». A dirlo, nell’Aula magna dell’Università Cattolica, è David Grossman, scrittore israeliano cult per intere generazioni, da quando nel 1986, il suo romanzo “Vedi alla voce: amore” divenne un successo planetario. Poi ancora tanti libri, tutti di fama internazionale, e le prese di posizione in favore della pace anche con una critica aperta nei confronti del governo israeliano, specie dopo la morte del figlio Uri, nel 2006, sul fronte libanese. Insomma, un uomo capace di raccontare come pochi cosa sia oggi la fiducia, e soprattutto la fiducia fragile, come si è intitolato il suo intervento, giocato sotto forma di un’intervista con le domande poste da Alessandro Zaccuri, responsabile della comunicazione dell’Ateneo.
Un evento atteso, quello con Grossman che mancava da anni dal nostro Paese e che ha aperto la seconda edizione del Festival di Spiritualità “Soul”, promosso dall’Arcidiocesi e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, che, fino al 23 marzo, vedrà la proposta di oltre 60 eventi di diverso tenore accomunati dal tema, “Fiducia. La trama del noi”.
Il saluto della rettrice Beccalli e di monsignor Bressan
Un bene relazionale – appunto la fiducia – che la rettrice della “Cattolica”, Elena Beccalli, dando avvio alla serata, definisce «sempre più scarso e più fragile, anche nella nostra città, essendo, tuttavia, i legami di fiducia alla radice della qualità dei rapporti umani e del nostro vivere quotidiano, dalla politica all’economia, dalla scuola alla sanità. Non dimentichiamoci che il grande successo che ha ottenuto e ottiene Milano in molti ambiti è dovuto soprattutto a una virtuosa combinazione tra la legittima aspirazione al meglio e la tensione verso il bene comune».

Da qui il binomio, secondo Beccalli, che caratterizza la nostra comunità, il “meglio” e la solidarietà. Una combinazione non sempre in equilibrio, proprio a causa della mancanza di fiducia intesa come trama del noi. «In alcuni casi, c’è troppo io e poco noi. Sappiamo bene che, se manca la fiducia in un altro, e restiamo intrappolati nel nostro io e difficilmente riusciamo a creare cose buone: questo è il prodotto dell’individualismo esasperato ed esasperante dei nostri tempi». Come riportare, quindi in equilibrio “il meglio” e la solidarietà? «Bisogna concentrarsi sul fare le cose giuste. Ecco perché questo Festival incentrato sulla fiducia assume un particolare significato, perché aiuta a tessere una trama del noi per creare e ricreare fiducia», conclude la Rettrice citando il Discorso alla Città 2018 dell’Arcivescovo “Autorizzati a pensare”, come in precedenza si era riferita all’ultimo Discorso del dicembre scorso.
Parole a cui ha fatto eco il vicario episcopale monsignor Luca Bressan, anche nella sua veste di co-curatore del Festival, indicando ai presenti e a tutti coloro che parteciperanno agli eventi della kermesse, tre compiti.
«Utilizzate queste cinque giornate come una grande palestra dove allenare la coscienza per ascoltare, ascoltarsi, cercando le radici profonde del nostro essere; irrobustite le pratiche di dialogo e di stima reciproca; imparate a respirare l’essenza ambrosiana, ossia la fiducia», suggerisce monsignor Bressan, paragonando il Festival a una grande profumeria. «Dopo 17 secoli ricordiamo Ambrogio e a impariamo essere veramente ambrosiani, cioè cattolici, abbracciando tutto».
Non mancano i saluti dell’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Tommaso Sacchi «questo Festival sia un esempio fecondo di incontro e di pensiero per noi e per i popoli tutti», e dell’ideatore di “Soul”, Aurelio Mottola: «Ha senso parlare di fiducia in un tempo di ferro come questo, quando i conflitti appaiono insanabili con la loro immensa scia di dolore, quando consumiamo la nostra esistenza della comfort zone della bolla digitale? A una precisa idea di fiducia, sorella gemella della speranza ci siamo ispirati nell’organizzazione degli oltre 60 eventi del Festival», spiega.
L’intervista entra, così, nel vivo con la traduzione di Paolo Noseda (molto più di un semplice traduttore), e gli interrogativi di Zaccuri che ricorda come Grossman nasca quale scrittore per l’infanzia, «che è il tempo per eccellenza della fiducia e dell’affidarsi».
La fiducia in un mondo di violenza
«Sono rimasto sorpreso quando ho ricevuto l’invito a parlare di fiducia, cosa molto rara nel mio Paese in cui dominano la rabbia, la violenza e il razzismo. Abituati a una vita di violenza e di odio e non ti accorgi più di poter essere buono, anche in senso pratico, di poter vivere a un livello più alto. Occorre superare gli stereotipi. Per questo vi sono grato».
Il riferimento è a uno dei primi romanzi dello scrittore, “L’abbraccio”, con il dialogo tra una madre e il suo bimbo di 4 anni, a cui la mamma dice quanto sia unico per lei. Un “essere unico” che il bambino non accetta, perché immediatamente legato all’idea di essere solo, che mette in dubbio anche le certezze della madre e che la spinge ad abbracciare il piccolo, capendo «quanto sia importante un gesto basato sulla fiducia, anche se le situazioni non sono perfette e generano crepe».
Ma – continua Grossman – «bisogna almeno essere disponibili a accettare questo abbraccio e le crepe dell’esistenza, mentre oggi in Israele non abbiamo più fiducia nei palestinesi, nei siriani, e questo ci fa sentire nemici».
E se la fiducia, come è evidente, manca oggi ovunque, a livello sociale e personale, come parlarne in rapporto all’amore e all’amore coniugale «una delle forme più folli della fiducia e del rischio che essa comporta» osserva Zaccuri, che richiama il romanzo “A un cerbiatto somiglia il mio amore” e la vicenda biblica di Giacobbe, Lea e Rachele.
«Quando ci si innamora – scandisce Grossman – è come se consegnassimo gran parte della nostra anima. Ma è un rischio: se due persone si innamorano, normalmente si dice che si fa un percorso al 50%, credo che, invece, dobbiamo dare il massimo, il 100%, perché la questione è capire quanto sia profondo questo sentimento. L’innamoramento è rivelarsi all’altro: non è tanto un dare, ma un “essere” per riuscire a cambiare».
La fiducia e la fragilità
«Esiste l’inevitabilità della fiducia, un oggetto misterioso che può essere tradito, che sappiamo è stato tradito, ma nel quale continuiamo a credere», incalza Zaccuri, che chiede: «La fiducia è fragile o è l’occasione per scoprirsi fragili?».
Immediata la risposta. «Spesso la fragilità si può immaginare come qualcosa di tanto radicato in noi che la si usa come uno scudo. Siamo esseri umani intrappolati in un’armatura: così si fa nei conflitti parlando del nemico, perdendo la possibilità di vedere quella crepa che porta a poter avere un rapporto diverso in famiglia e anche con un Paese che è nemico. Se guardiamo alla crepa, allora saremmo in grado di vedere la situazione dal punto di vista dei nostri nemici in modo diverso».
La guerra in Israele
«Non parlo dell’amore cinematografico, hollywoodiano, ma della realtà. Quando si vive nei conflitti si diventa dei grandi guerrieri e lo siamo diventati noi e i palestinesi. Riuscire a raccontare o riraccontare una storia, significa non essere intrappolati negli stereotipi, nell’odio soprattutto».
«Certo, tutto questo presuppone il prezzo incredibile di uscire dalle nostre ristrettezze mentali, di non essere più sospettosi e monodimensionali nel pensiero, vedendo solo l’odio. In questo modo si riesce a vedere la realtà con occhi diversi: non da condannati a guardare in un unico senso. Siamo stati tutti vittime di guerre, sono state uccise moltissime persone, esseri umani, bimbi e adulti israeliani e palestinesi, ma io vorrei che questo non fosse il nostro destino, che potessimo cambiare. È più facile continuare ad odiare, perché è una cosa che si conosce, ma sfiliamoci, cerchiamo di superare questa prova, di cambiare e la realtà ci parrà diversa. Quando eravamo sul punto di raggiungere la pace tra Israele e la Palestina, parecchi anni fa, ho pensato questa immagine: c’è una persona che deve saltare tra due alberi e c’è un momento, quando decidi di saltare, che sei in aria, non c’è terreno sotto i piedi e se non si ha il coraggio di fare il salto, di essere sospesi nell’aria, vuol dire che abbiamo sbagliato lavoro, modo di essere e modo di fare. Se invece ce lo permettiamo, probabilmente riusciamo a ottenere una vera pace e a perseguire la possibilità che questa terribile guerra, che ci colpisce da più di 100 anni a questa parte, possa terminare».
Il pensiero dello scrittore va agli ostaggi, oggi ancora «59 persone, per la maggior parte civili, rapiti mentre dormivano un sabato mattina e che da più di 500 giorni stanno in catene, senza poter vedere la luce del sole. Da quel giorno è come se portassi al polso due orologi, quello della quotidianità e quello di quando gli ostaggi saranno rilasciati. Pensateci almeno una volta al giorno, perché questo va a plauso dell’essere umano».
«Perché ci fidiamo di voi che ci raccontate un sacco di storie?», chiosa l’intervistatore. «Me lo chiedo anche io», ride Grossman. «C’è una forza nella creazione di una storia: non essere guidati dai cliché. L’unico luogo dove si può descrivere la morte e la gioia, parlare di tutto, è l’arte. Nonostante ciò che ho passato nella vita, mi sento privilegiato perché i miei libri sono stati amati, e spero che, oltre l’amore, stimolino la mente e il pensiero».