Gli sguardi e le carezze. Cosa c’è di più bello, di più tenero di un momento di domestica intimità tra madre e figlio? Una mamma che culla in grembo la sua creatura, stringendola a sé, avvolgendola, proteggendola: carne della sua carne. E il bambino che, in un sussulto d’affetto, si gira verso la genitrice cercandone gli occhi, mentre la boccuccia pare schiudersi in un puerile, amabilissimo balbettio; con le sue manine appoggiate su quelle materne, come a ripeterne il gesto, con spontanea naturalezza, in una consonanza assoluta, fisica e spirituale. Eppure c’è ancora dell’altro, è evidente. Perché, a ben osservare, i due sguardi non s’incontrano. Quello di Gesù, infatti, si eleva ancora più su, verso il cielo. E quello di Maria appare concentrato e raccolto: meditabondo, persino.
Una grazia infinita
La grazia dei dipinti di Botticelli è inarrivabile. Come dimostra anche la sua «Madonna col Bambino», che è uno dei capolavori assoluti che può oggi vantare Milano e la terra ambrosiana, gemma tra le più preziose di quello straordinario tesoro d’arte che è custodito al Museo Poldi Pezzoli. Un’opera dove alla bellezza smagliante della pittura si unisce la profondità del messaggio cristiano, secondo la più alta tradizione di quel Rinascimento italiano del quale Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi – questo il vero nome di Botticelli – è stato uno dei maestri più illustri.
Si tratta di una tempera su tavola, che misura circa sessanta centimetri d’altezza per quaranta di base. Un quadro abbastanza importante, dunque, ma non monumentale, destinato probabilmente alla devozione privata, piuttosto che a essere collocato in una cappella gentilizia o sull’altare di una chiesa pubblica. Purtroppo non sappiamo nulla riguardo alla committenza di quest’opera, che tuttavia doveva essere di alto profilo, in considerazione della notevolissima qualità del lavoro svolto. La stessa attribuzione a Botticelli, peraltro, si basa proprio su considerazioni stilistiche, mancando appunto qualsiasi documentazione relativa: assegnazione che i recenti restauri hanno ancora più confermato, nel giudizio unanime degli studiosi.
La data di esecuzione dovrebbe aggirarsi attorno al 1482, ovvero nei giorni immediatamente successivi al rientro di Botticelli a Firenze, dopo l’impegnativo soggiorno dell’artista a Roma per la decorazione della Cappella Sistina: quando cioè il Filipepi era quasi quarantenne e aveva ormai raggiunto l’apice della fama e della maturità artistica. Evidente è il legame con la cosiddetta «Madonna del Magnificat», altra opera capitale del maestro: un tondo imponente e superbo del quale la tavola «milanese» potrebbe costituire una sorta di «precedente» o, viceversa, una derivazione di stampo più privato.
Il libro e la preghiera
Questo capolavoro è universalmente noto con il titolo di «Madonna del libro», desunto da uno degli elementi che ha più evidenza nella tavola: il tomo aperto che la Vergine ha davanti a sé. Immagini di Maria raffigurata mentre sta leggendo un libro d’ore o la Bibbia sono piuttosto comuni nell’arte del Tre e del Quattrocento: oltre alle numerose miniature esistenti, infatti, basterebbe ricordare vari esempi nella pittura fiamminga e, soprattutto, le bellissime Madonne dell’Annuncio di Antonello da Messina.
Botticelli, però, crea in questo dipinto qualcosa di veramente nuovo, ritraendo la Madonna come nel suo «studiolo», esattamente come all’epoca si faceva nella rappresentazione degli evangelisti all’opera o di san Gerolamo intento a tradurre le Sacre Scritture. Uno «studiolo» certamente più casalingo, dove accanto ai libri (si intravedono, infatti, le rilegature di altri volumi) si notano oggetti di uso quotidiano, come ad esempio una scatola di legno (usata per conservare alimenti: i dolci, in particolare) o un bel cesto di maiolica decorata alla fiorentina con della frutta fresca. Il libro stesso che Maria sta leggendo, del resto, poggia su un leggio «improvvisato», fatto con un cuscino e un lenzuolo.
Alcune parole, in un latino volgarizzato, sono ben leggibili sulle pagine aperte: ad esempio i versetti di Isaia, che profetizzano la venuta del Messia («Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele», 7, 14-15); o l’invocazione del salmista che costituisce la preghiera introduttiva a tutte le Ore del breviario, romano e ambrosiano: «O Dio, vieni a salvarmi, vieni presto, Signore, in mio aiuto» (69, 2).
E il Verbo si fece carne
In questa rappresentazione di Botticelli, insomma, Maria non sta «soltanto» recitando le orazioni come ogni buon cristiano, ma medita e riflette sulla grandezza dei fatti che la vedono protagonista a partire dalle parole dei profeti: profezie che lei stessa, con la sua docile obbedienza a Dio, ha permesso che si avverassero. L’ambiente dello «studiolo», così, per quanto domestico, rimanda a una comprensione profonda della Parola da parte della Vergine, fino all’assimilazione assoluta del Verbo che in lei si è fatto carne.
Per questo lo sguardo della Madonna è così assorto. Quasi a illustrare, in modo mirabile, quanto scrive l’evangelista Luca subito dopo la nascita a Betlemme: «Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (2, 19). E proprio perché la Madre sa, già intuisce la prova che l’attende, il sacrificio e le sofferenze del Figlio (che infatti tiene già i segni della Passione: i tre chiodi della Croce e la corona di spine), come del resto le aveva profetizzato Simeone al Tempio: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima».
E allora Maria sembra stringere più forte il Bambino a sé, mentre l’altra mano rimane come sospesa sul libro: non per paura, non per rabbia, ma ancora una volta come piena accettazione del volere divino. Mentre Gesù, il Redentore, accenna con la manina destra a un gesto di benedizione, accarezzando la mano della mamma e guardando verso di lei, oltre di lei, come a sussurrarle: «Non avere paura».