Lillo ne sarebbe stato contento. Una schiera di ragazzini curiosi, vivaci, che si indicano a dito le copertine dei suoi libri, i volti ritratti nelle foto, chiedendo conferme, più che spiegazioni, agli insegnanti che li accompagnano, per poi annuire soddisfatti, convinti, passando ad un’altra vetrina, ad un altro pannello, ad un altro squarcio di vita… Sì, Lillo, Luigi Santucci, l’amabilissimo narratore, l’educatore appassionato, ne avrebbe gioito di questo giovanile interessamento ai suoi scritti, alle sue amicizie, ai suoi luoghi. All’interno, poi, di uno degli ambienti milanesi che più gli erano cari: la casa del Manzoni. Di quell’autore dei Promessi sposi, cioè, che non si stancò mai di far conoscere a generazioni di studenti nella sua essenza più intima e vera, al di là della retorica e dei luoghi comuni.
Dieci, anzi, undici anni sono già passati dalla scomparsa di Santucci. Eppure ancora non ci abbandona il suo sguardo allegro, complice di serenità, coraggiosamente, consapevolmente, evangelicamente bambino. «Io sono un uomo natalizio», ci confidò un giorno, scrutandoci con simpatia attraverso la cortina azzurrognola di una pipa sempre accesa. Non era una bizzaria, nè un’eccentricità da romanziere, ma la rivendicazione seria e onesta di chi riusciva a estendere a tutto l’anno, in ogni giorno, lo stupore e la gioia per Cristo che nasce. Un caparbio, incallito amante dei presepi, come si definiva lui stesso, di cui pretendeva circondarsi d’inverno come d’estate, quasi volesse affidare proprio al candore di quelle modeste rappresentazioni i legami più sacri, come per proteggerli, per salvarli dalle brutture della stupidità…
«Il più caro di tutti i piaceri è quello dell’ospitalità, quello di ricevere l’amico intimo in casa nostra», leggiamo in un foglio infilato nel rullo di una Lettera 22. E il Don Lisander, dall’alto della parete a cui è appeso, pare approvare. Già, perchè il filo rosso di questa piccola rassegna di documenti e immagini allestita nelle stanze della Casa di Alessandro Manzoni a Milano non è tanto, e non solo, la produzione letteraria di Luigi Santucci, quanto le sue relazioni umane, le sue conoscenze, le sue amicizie. Perchè, come già nei padri della Chiesa, l’amicizia per lo scrittore ambrosiano era qualcosa di sacro, una virtù da coltivare e condividere, una festa da santificare in ogni momento.
«Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei», sentenzia un noto proverbio. E i compagni di viaggio di Luigi, come le stesse istantanee raccolte in questa mostra ricordano, erano i Turoldo e i Mazzolari, i De Piaz e gli Apollonio, i Nazareno Fabretti e gli Ernesto Balducci, i Bontadini e i Lazzati, per non citarne che alcuni. «Una bella compagnia», diranno forse gli uni e gli altri, magari con una diversa inflessione della voce… «Una bella compagnia», ci ripete con tenerezza, e un po’ di comprensibile rimpianto, la gentile signora Bice, testimone e protagonista di tante ore liete, intense, indimenticabili in casa Santucci, a pochi passi dal Conservatorio, all’ombra del cupolone di Santa Maria della Passione.
Antifascista e partigiano (e non dell’ultima ora), autore e studioso impenitente di letteratura per l’infanzia (la sua tesi di laurea sul tema fu lodata da Benedetto Croce), con Lo zio prete (1951), Il Velocifero (1963), Orfeo in Paradiso (trionfatore del Campiello nel 1967) Luigi Santucci ha vergato pagine di straordinaria umanità, di concreto, ambrosiano lirismo, dove i naufraghi della vita sono raccolti da una Provvidenza che manzonianamente c’è davvero, dove nulla e nessuno è mai abbandonato nella misericordia di un Dio che è prima di tutto Padre. Per questo gli si attaccò l’etichetta di “scrittore cattolico”, con corporativa sollecitudine di certa parte ecclesiale, con il solito tono dispregiativo e limitante di certi circoli laicisti.
Santucci sapeva non prendersela. Del resto, aveva due “segreti”. Il primo lo intuì già nel 1944 Gianfranco Contini, quando dopo aver letto i suoi Misteri Gaudiosi, gli disse: «Caspita, per scrivere pagine come queste la sua fede deve avere radici fino al centro della terra!». Il secondo lo confessò egli stesso nel suo testamento spirituale: «La ragione più forte per cui ho fatto questo mestiere è la volontà di lodare quante più cose posso: persone, luoghi, rapporti umani, sentimenti… La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo, per aiutarlo, perchè recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso; perchè esca dalla disperazione e ritrovi l’amabilità». Segreti di cui chiunque abbia conosciuto Lillo, o anche solo letto i suoi libri, già era al corrente.
La mostra dedicata a Luigi Santucci è aperta a Milano presso la Casa del Manzoni (via Morone, 1), da martedì a venerdì, dalle ore 9 alle 12 e dalle 14 alle 16, fino al 2 luglio. Ingresso libero. Per informazioni, tel. 02.86460403. Lillo ne sarebbe stato contento. Una schiera di ragazzini curiosi, vivaci, che si indicano a dito le copertine dei suoi libri, i volti ritratti nelle foto, chiedendo conferme, più che spiegazioni, agli insegnanti che li accompagnano, per poi annuire soddisfatti, convinti, passando ad un’altra vetrina, ad un altro pannello, ad un altro squarcio di vita… Sì, Lillo, Luigi Santucci, l’amabilissimo narratore, l’educatore appassionato, ne avrebbe gioito di questo giovanile interessamento ai suoi scritti, alle sue amicizie, ai suoi luoghi. All’interno, poi, di uno degli ambienti milanesi che più gli erano cari: la casa del Manzoni. Di quell’autore dei Promessi sposi, cioè, che non si stancò mai di far conoscere a generazioni di studenti nella sua essenza più intima e vera, al di là della retorica e dei luoghi comuni. Dieci, anzi, undici anni sono già passati dalla scomparsa di Santucci. Eppure ancora non ci abbandona il suo sguardo allegro, complice di serenità, coraggiosamente, consapevolmente, evangelicamente bambino. «Io sono un uomo natalizio», ci confidò un giorno, scrutandoci con simpatia attraverso la cortina azzurrognola di una pipa sempre accesa. Non era una bizzaria, nè un’eccentricità da romanziere, ma la rivendicazione seria e onesta di chi riusciva a estendere a tutto l’anno, in ogni giorno, lo stupore e la gioia per Cristo che nasce. Un caparbio, incallito amante dei presepi, come si definiva lui stesso, di cui pretendeva circondarsi d’inverno come d’estate, quasi volesse affidare proprio al candore di quelle modeste rappresentazioni i legami più sacri, come per proteggerli, per salvarli dalle brutture della stupidità…«Il più caro di tutti i piaceri è quello dell’ospitalità, quello di ricevere l’amico intimo in casa nostra», leggiamo in un foglio infilato nel rullo di una Lettera 22. E il Don Lisander, dall’alto della parete a cui è appeso, pare approvare. Già, perchè il filo rosso di questa piccola rassegna di documenti e immagini allestita nelle stanze della Casa di Alessandro Manzoni a Milano non è tanto, e non solo, la produzione letteraria di Luigi Santucci, quanto le sue relazioni umane, le sue conoscenze, le sue amicizie. Perchè, come già nei padri della Chiesa, l’amicizia per lo scrittore ambrosiano era qualcosa di sacro, una virtù da coltivare e condividere, una festa da santificare in ogni momento. «Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei», sentenzia un noto proverbio. E i compagni di viaggio di Luigi, come le stesse istantanee raccolte in questa mostra ricordano, erano i Turoldo e i Mazzolari, i De Piaz e gli Apollonio, i Nazareno Fabretti e gli Ernesto Balducci, i Bontadini e i Lazzati, per non citarne che alcuni. «Una bella compagnia», diranno forse gli uni e gli altri, magari con una diversa inflessione della voce… «Una bella compagnia», ci ripete con tenerezza, e un po’ di comprensibile rimpianto, la gentile signora Bice, testimone e protagonista di tante ore liete, intense, indimenticabili in casa Santucci, a pochi passi dal Conservatorio, all’ombra del cupolone di Santa Maria della Passione.Antifascista e partigiano (e non dell’ultima ora), autore e studioso impenitente di letteratura per l’infanzia (la sua tesi di laurea sul tema fu lodata da Benedetto Croce), con Lo zio prete (1951), Il Velocifero (1963), Orfeo in Paradiso (trionfatore del Campiello nel 1967) Luigi Santucci ha vergato pagine di straordinaria umanità, di concreto, ambrosiano lirismo, dove i naufraghi della vita sono raccolti da una Provvidenza che manzonianamente c’è davvero, dove nulla e nessuno è mai abbandonato nella misericordia di un Dio che è prima di tutto Padre. Per questo gli si attaccò l’etichetta di “scrittore cattolico”, con corporativa sollecitudine di certa parte ecclesiale, con il solito tono dispregiativo e limitante di certi circoli laicisti. Santucci sapeva non prendersela. Del resto, aveva due “segreti”. Il primo lo intuì già nel 1944 Gianfranco Contini, quando dopo aver letto i suoi Misteri Gaudiosi, gli disse: «Caspita, per scrivere pagine come queste la sua fede deve avere radici fino al centro della terra!». Il secondo lo confessò egli stesso nel suo testamento spirituale: «La ragione più forte per cui ho fatto questo mestiere è la volontà di lodare quante più cose posso: persone, luoghi, rapporti umani, sentimenti… La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo, per aiutarlo, perchè recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso; perchè esca dalla disperazione e ritrovi l’amabilità». Segreti di cui chiunque abbia conosciuto Lillo, o anche solo letto i suoi libri, già era al corrente.La mostra dedicata a Luigi Santucci è aperta a Milano presso la Casa del Manzoni (via Morone, 1), da martedì a venerdì, dalle ore 9 alle 12 e dalle 14 alle 16, fino al 2 luglio. Ingresso libero. Per informazioni, tel. 02.86460403. –