Il gozzo lo denuncia per la sua origine misera e valligiana, delle Prealpi lombarde o della Bassa padana, là dove una dieta irrimediabilmente povera di iodio – o comunque povera soltanto – aveva fatto di questa patologia della tiroide una piaga endemica. E questo gozzuto è un pastore, uno di quelli chiamati ad adorare il Bambino Gesù nella Notte Santa. Con lui altri pastori, ma anche musici, pitocchi e viandanti, e pure un’altra madre con un altro figlio al collo, tutti a stringersi, commossi fino alle lacrime, attorno alla sacra culla.
Sì, è proprio un classico presepe della tradizione, quello esposto in questi giorni al Museo Diocesano di Milano (in corso di Porta Ticinese, 95), proveniente dalla Collezione Longari. E tuttavia davvero singolare, per la sua storia ancora da ricostruire, per il suo valore artistico non comune, per i suoi tratti così caratteristici. Dodici statue policrome di legno di pioppo, non piccole, non grandi, di dimensioni variabili fra i 50 centimetri e il metro, intagliate con maestria e risalenti, probabilmente, alla fine del XVII secolo.
Un allestimento ideato forse per una villa suburbana, più che per una chiesa, con un occhio ai teatrali scenari dei Sacri Monti e l’altro ai movimentati gruppi scultorei rinascimentali (come quello di Agostino de Fondulis presso il sacello di San Satiro a Milano, per intenderci). Il risultato è di sorprendente espressività, di efficace realismo, come a voler rappresentare accanto al Bambinello non una generica umanità, ma quella propria lombarda del tardo Seicento, con i suoi poveri cenci e i suoi ricchi broccati. In un ritratto che, nonostante tutto, ci appare ancora familiare. Il gozzo lo denuncia per la sua origine misera e valligiana, delle Prealpi lombarde o della Bassa padana, là dove una dieta irrimediabilmente povera di iodio – o comunque povera soltanto – aveva fatto di questa patologia della tiroide una piaga endemica. E questo gozzuto è un pastore, uno di quelli chiamati ad adorare il Bambino Gesù nella Notte Santa. Con lui altri pastori, ma anche musici, pitocchi e viandanti, e pure un’altra madre con un altro figlio al collo, tutti a stringersi, commossi fino alle lacrime, attorno alla sacra culla. Sì, è proprio un classico presepe della tradizione, quello esposto in questi giorni al Museo Diocesano di Milano (in corso di Porta Ticinese, 95), proveniente dalla Collezione Longari. E tuttavia davvero singolare, per la sua storia ancora da ricostruire, per il suo valore artistico non comune, per i suoi tratti così caratteristici. Dodici statue policrome di legno di pioppo, non piccole, non grandi, di dimensioni variabili fra i 50 centimetri e il metro, intagliate con maestria e risalenti, probabilmente, alla fine del XVII secolo. Un allestimento ideato forse per una villa suburbana, più che per una chiesa, con un occhio ai teatrali scenari dei Sacri Monti e l’altro ai movimentati gruppi scultorei rinascimentali (come quello di Agostino de Fondulis presso il sacello di San Satiro a Milano, per intenderci). Il risultato è di sorprendente espressività, di efficace realismo, come a voler rappresentare accanto al Bambinello non una generica umanità, ma quella propria lombarda del tardo Seicento, con i suoi poveri cenci e i suoi ricchi broccati. In un ritratto che, nonostante tutto, ci appare ancora familiare.